“Ti vabengono questi jeans?” ha chiesto il seienne questa mattina mentre gli mettevo fretta per andare a scuola.

Lì per lì non ci ho nemmeno fatto caso – eravamo in ritardo e comunque al terzo giro mi è un po’ passata la voglia di registrare le frasi buffe dei bambini – ma poi ho ricordato che la primogenita aveva usato lo stesso neologismo, quando era piccola, mille anni fa. Il verbo vabenire – nel significato di “essere d’accordo, farsi andare bene” – fu prontamente inserito nel lessico familiare, ché nessun’altra parola rendeva altrettanto bene l’esatta sfumatura della richiesta quando si spera in una risposta affermativa.

Smisi solo quando mi accorsi di aver chiesto al responsabile della blasonatissima multinazionale per cui lavoravo se gli vabenivano gli importi delle fatture.

Con la secondogenita arrivarono parole nuove in grado di dare nuovi significati e vecchie abitudini. In casa Lara indossava le calze da camminaggio e a scuola andava con la duda (automobile particolarmente sporca); il protagonista delle fiabe della buonanotte era il cuccunanno (cavallo le cui avventure stimolano il sonno, appunto).

Una volta più grande, Lara alzò il livello delle difficoltà costringendoci a distinguere tra cioccolata (spalmabile) e cocciolata (in blocchi); iniziò a dare un nome alle emozioni tra cui l’ingurdia, cioè l’invidia verso qualcosa che non avrebbe mai posseduto ma che avrebbe tanto voluto avere; e infine arrivò a correggerci: quella cosa circolare grazie alla quale affrontavo le curve era il guidante (“Perché lo chiami volante? Stai guidando un auto, mica piloti un aereo!”).

“E cosa dovrei dire, io?” aveva riso Giovanna quando le avevo raccontato le acrobazie verbali dei ragazzi “Filippo ha parlato tardi, e quando ha iniziato, si esprimeva solo in termini automobilistici. Gli altri bambini regalavano parole piene di affetto alle loro mamme, il mio mi abbracciava con gli occhi a cuoricino e sussurrava: tubo di capamento. E questa” aveva chiosato la mia amica “rimane la più bella dichiarazione d’amore che abbia mai ricevuto”

Forse Giovanna aveva avuto ragione a sdrammatizzare, ma sono preoccupata. Non è che avallando certi errori poi da grandi questi ragazzini si ritrovano a confondere accenti e apostrofi e a separare dittonghi?

Magari dietro l’amico quarantenne che scrive “un pò” c’è una madre che ha riso troppo a lungo degli errori del figlio. Così correggo il mio.

“Non si dice vabengono” lo sgrido “e sbrigati a indossare quei pantaloni, ché è tardi. Ti aspetto fuori, vado a mettere in moto la duda”.