Una storia, tante storie

La mia storia è la storia di tante donne e, allo stesso tempo, la mia storia è composta di tante mie storie.

Cosa convince una donna a condividere la sua vita privata con le altre donne? Me lo sono chiesta prima di decidere di scrivere. Ci sono due ragioni che si prendono mano nella mano: la prima è quella di condividere, perché la propria storia può essere di sostegno a qualcun’altra, la seconda è la necessità di non sentirsi sole, di trovare sostegno nelle altre donne e nella loro esperienze.

Insomma, bisogna guardarsi allo specchio per vedere il proprio riflesso. A volte ci vuole coraggio anche per specchiarsi. Ho pensato molto se raccontare e condividere questa parte della mia vita, ho sempre pensato che quando avessi trovato la felicità l’avrei condivisa e “sbandierata ai quattro venti”, ed invece è stato il contrario, è qualcosa che mi ha portato a chiudermi gelosamente in me stessa, come se avessi paura che qualcosa o qualcuno me la potesse portare via.

Ma oggi sono qui, a raccontarvi la mia storia, la vostra storia: l’amore, il sogno di una famiglia, la difficoltà di restare incinta, le paure, le decisioni, la gravidanza con le sue gioie e i suoi problemi, le avventure e disavventure quotidiane, i rapporti col proprio compagno e le famiglie e soprattutto come si vive e si convive con una gravidanza a rischio, per lo più costrette a letto.

La mia storia

Cominciamo dall’inizio, mi chiamo Sonia, ho 44 anni e da sempre voglio diventare mamma. Per anni ho collaborato con case famiglia, centri estivi e scuole primarie, per anni mi sono occupata dei figli degli altri sentendomi dire che sarei stata una buona mamma. Per un periodo ho fatto anche la tata, per questo blog ho firmato la rubrica #Tatapercaso (che è ancora on line e che potete leggere). Ho vissuto una bellissima e lunga storia d’amore, ma al momento di costruire una famiglia…

Lui mi ha confidato di non volere figli. Così…ho dovuto scegliere e ho scelto la maternità.

Allora avevo 32 anni e, nonostante il cuore a pezzi, pensavo di avere tutto il tempo per ricominciare. E ho ricominciato, ho vissuto all’estero, mi sono dedicata alla mia carriere di giornalista, ho lavorato per giornali, radio, tv, uffici stampa, per poi capire che questo lavoro mi portava lontano da quello che desideravo davvero: la stabilità e una famiglia.

Non avevo trovato un compagno, ma ormai nella mia mente si faceva strada l’idea di fare un figlio da sola: la mia migliore amica mi avrebbe accompagnata a Barcellona… ma cosa avremmo detto al bambino una volta cresciuto? Era la domanda che ci facevamo più spesso… e giù a cercare di inventare delle storie strampalate sul papà soldato, astronauta, legionario… sono figlia degli anni ’80, sono moderna ma non così tanto da dire a mio figlio che è nato da una provetta… Tra una fantasticheria e l’altra, questa possibilità, come una porta sempre aperta, una sorta di piano B, mi ha dato fiducia nel futuro e mi ha fatto proseguire nella mia vita di tutti i giorni.

Ho cominciato a preparare il nido, per essere una mamma single bisogna avere un lavoro stabile, essere solidamente ed economicamente indipendenti. Così, mi sono rimessa a studiare, ho sfruttato saggiamente e con spirito di resilienza il periodo del Covid per preparare il mio nido. Ma quando meno te l’aspetti… arriva l’amore! Ed è un amore “normale”? Ma certo che no, una persona di un’altra nazionalità, con un’altra cultura e religione, che vive a quasi 800 km di distanza, ma che fai se hai le farfalle nello stomaco? Ci credi e aspetti che la storia d’amore in cui credi e sogni si realizzi un passo alla volta.

Ed è così che il nostro amore ha sfidato e vinto la lontananza, le zone rosse, i pregiudizi di amici e parenti, e lui si è trasferito dal paradiso terrestre di una piccola città di mare alla grigia Milano, dove abbiamo imparato a convivere, a cercare una routine, una rete sociale e soprattutto un lavoro per lui. Dopo un anno di convivenza lui aveva conquistato il posto a tempo indeterminato, mentre io finivo una scuola di specializzazione che mi avrebbe concesso di avere un lavoro stabile e saremmo stati pronti per avere una famiglia.

Durante il Covid tutti ci siamo un po’ trascurati non potendo fare le solite visite mediche di routine e quando a novembre 2022 sono andata dal ginecologo a 42 anni mi ha detto che i miei fibromi erano cresciuti un po’, che l’età era quella che era e che avevo 6 mesi di tempo per cercare di fare un bambino altrimenti ci saremmo rivisti.

La maternità negata

A luglio non era successo nulla, tanti ritardi, ma nessun bambino, così sono tornata dal medico che mi ha detto che i fibromi impedivano il concepimento e che a settembre avrei potuto rivolgermi ad un centro per la fecondazione assistita e pensare alla donazione di ovociti.

Per me è stata una doccia fredda. Il ginecologo mi diceva sorridendo “ma non penserà mica che il suo corredo genetico sia così importante?” Io non potevo credere che avrei dovuto ricevere un ovulo da un’altra donna per avere un bambino. Si pensa sempre di avere tanto tempo, e che quando si decide di fare qualcosa, quel qualcosa accade. Non si è mai troppo vecchi e non è mai troppo tardi. La nostra società ci bombarda con questi slogan. E anch’io ci avevo creduto.

Ho passato l’estate a piangere: mi sentivo una donna mutilata, come se il mio ventre fosse un albero secco.

Guardare le altre donne incinta mi dava tristezza. Ho cominciato a riflettere a cosa ero disposta a fare per avere un bambino, era così importante la genetica? Studi scientifici parlano di epigenetica, cioè conta di più l’educazione e il prendersi cura del bambino. A me sarebbe tanto piaciuto avere un bambino col mio compagno. E poi mi chiedevo se lui sarebbe stato disposto a sottoporsi ad analisi e prelievi di sperma, a fare test genetici di compatibilità con una donatrice… Davvero il nostro amore sarebbe passato da una provetta?

A settembre, dopo lunghe riflessioni davanti al mare, ero pronta a percorrere questa strada: avrei avuto il mio bambino!