Mamma a 44 anni

E’ veramente uno shock quando una donna si sente dire che ha più probabilità di vincere al Totocalcio piuttosto che rimanere incinta. Sono le parole che, con molto tatto, mi sono sentita dire durante i miei pellegrinaggi da un ginecologo all’altro. Ne ho consultati tre.

Quando compriamo una macchina giriamo più concessionari, figuriamoci se per una questione del genere non sentivo il parere di almeno tre medici! Il primo, il mio, era quello che optava per togliere i miomi, l’impedimento alla mia fertilità insieme all’età, tutta questione di statistiche… e che mi consigliava l’intervento a settembre, l’attesa di un anno per poi fare la donazione di ovocita; la seconda ginecologa era quella del totocalcio, ma io non ho pensato nemmeno per un attimo di giocare la schedina; la terza dottoressa, invece, è quella che mi ha dato speranza, mi ha detto che non era impossibile ma che era meglio non perdere tempo e andare in un centro per la fecondazione assistita dove avrei potuto giocarmela quanto meno con i miei ovuli.

Detto, fatto! Io avevo deciso di percorrere quella strada. Naturalmente, non tutti erano del mio avviso, alcune amiche mi sostenevano, altre pensavano che fosse solo una scelta egoistica – ormai, se a quell’età non avevo ancora avuto figli c’era un motivo – e che le cose devono venire naturali, qualcun altro mi consigliava l’adozione, altri ancora mi dicevano di godermi la vita, che un figlio ti rende schiava e che poi crescono, se ne vanno e quando sei vecchia non ti chiedono nemmeno come stai. Mia mamma non credeva che sarei arrivata a tanto. Il mio compagno era titubante. Lui non provava un forte desiderio di paternità, ma mi vedeva soffrire e per amore ha deciso di accompagnarmi in questo percorso.

Quando ti dicono che hai dei problemi fisici e l’età non aiuta, che se vuoi davvero avere un bambino l’unica strada è la fecondazione assistita e che hai poco tempo per decidere, perché in Italia il servizio è garantito fino ai 45 anni… senti un tic toc che ti risuona nella mente, nel cuore e nel ventre.

Non so come voi la pensiate, se ritenete che la scienza possa essere un valido aiuto per superare dei limiti e donarci la gioia della maternità. Io ho sempre pensato che la maternità sia un fatto davvero delicato e introspettivo, che una donna debba guardarsi dentro e capire davvero se la vuole o no.

Finora la società ha criticato le donne senza figli, e le donne si sono sentire in dovere di assolvere a questo compito sociale per cui non sentivano la minima aspirazione. A me piacciono le donne che dicono apertamente che non amano i bambini o che non sentono l’istinto materno, o che preferiscono fare shopping e viaggiare piuttosto che cambiare pannolini. Le rispetto. Per questo rispetto anche le donne che pur diventare mamme ricorrono alla scienza finanche alla maternità surrogata. Ma torniamo a me, alla mia decisione: la fecondazione assistita.

Siamo andati in una struttura sanitaria di Milano. Naturalmente, nonostante le prescrizioni mediche è impossibile avere appuntamenti con date ragionevoli con il servizio sanitario nazionale, per cui abbiamo fatto tutto privatamente, spendendo in 15 giorni 1.500 euro tra visite ed esami. Questo mi ha fatto pensare che non tutte le donne possono accedere a questo servizio, ci vogliono davvero parecchi soldi per percorrere questa strada.

La prima volta che siamo andati a fare la visita, in sala d’attesa c’erano tante ragazze molto più giovani di me, con volti tristi, e questo mi ha davvero impressionata. Se ne parla troppo poco di quante ragazze, anche giovanissime, di 20, 30 anni, abbiano difficoltà a concepire, e di come in questo percorso poi si sia sole. In questa struttura sanitaria, anche pagando, sei un numero, nessuna voce rassicurante o approccio psicologico, se la cosa riesce sono stati bravi loro, se non riesce allora è il tuo fisico che non ha risposto alla terapia.

Comunque, la buona notizia della prima visita era che la ginecologa era propensa a prelevare dei miei ovuli!!! Certo, bisognava prepararsi facendo delle punture nella pancia e poi sottoporsi ad un piccolo e – dicono – fastidioso intervento, ma non valeva la pena provare? Il giorno dopo, il mio compagno si è sottoposto ad un prelievo dello sperma, per lui è stata una missione eroica, delle donne che aspettavano fuori da una stanza che lui riempisse la provetta… per lui era una cosa imbarazzante ed inconcepibile. Una prova titanica del suo amore per me. Ma era necessario per capire se il problema potesse essere lui. Ed invece no, i suoi spermatozoi stavano benone, guizzavano come pesci. Nel pomeriggio abbiamo incontrato la genetista che con freddezza e aria snob mi ha detto: “Sì, sì, un tentativo, ma alla sua età che ovuli crede di avere? Mah!” Ci ha messo in una stanzina buia a compilare e firmare dei fogli e poi ci ha spedito a fare degli esami del sangue senza spiegarci nulla. Davvero, la testa mi ronzava… mi sentivo svenire mentre ci facevano gli esami del sangue nella stessa stanza. Era come se oltre al mio sforzo, le mie paure, i miei limiti, venissi ulteriormente umiliata come persona, come donna e per di più davanti al mio compagno. Avevo solo bisogno di essere accolta e rassicurata pur essendo informata, giustamente, sulle possibilità più o meno scarse di avere successo nell’impresa.

Dopo quest’esperienza avvilente, ho trascorso due notti insonni, giorni con pianti, nausea e addirittura febbre come reazione al trattamento della genetista e per le poche probabilità di successo dell’impianto visto l’utero reso più duro dai miomi.

I giorni a seguire sono stati un tormento, il morale era a terra. Ero pronta a fare tutto e poi fallire? Cosa avrei fatto dopo? E soprattutto: mi ero rivolta alla struttura giusta? Dopo notti insonni e un consulto con un’altra ginecologa, ho deciso di scappare dall’Italia e rivolgermi a delle cliniche spagnole imbattibili in questo campo. Ma prima, avrei finito di fare i miei esami, sarei andata in Spagna con la mia cartella clinica completa in modo che il consulto sarebbe stato chiaro e veloce. Mi sono impegnata a completare la mia cartella clinica con decisione, serenità e grinta e, soprattutto, ho scelto di chiudermi in un serafico silenzio. Non avevo bisogno di sentire più i pareri più disparati di amici, parenti, conoscenti e medici. Avevo chiaro un obiettivo e, nonostante i timor – e, credetemi, ne avevo a bizzeffe – ho buttato il cuore oltre l’ostacolo perché volevo davvero diventare mamma.

Questa storia continua tra 15 giorni, se non avete letto il primo post cliccate qui.