Al termine di un colloquio con i genitori di un mio studente, ho captato una domanda che il padre rivolgeva a sua moglie, domanda che suonava fra l’incredulo e l’accusatorio, in quanto formulava la richiesta disapere se loro, in quanto genitori, conoscessero realmente il proprio figlio, “se lo avessero mai veramente guardato negli occhi”.

Cito testualmente le parole perché mi si sono marchiate a fuoco nella memoria, una fra le tante occasioni per mettermi in discussione nell’essere a mia volta genitore.

Scommetto che ognuno di noi è perfettamente in grado di dire quale sia il gusto di gelato o di pizza preferito dal proprio figlio, il nome del suo amico del cuore, la squadra per cui tifa, la maestra per cui ha più simpatia, il cartone che non perderebbe per nulla al mondo, e così via.

Ma la domanda di quel papà ha portato a chiedermi quanto di più profondo ci sia da conoscere in un figlio, quanto non emerga dal dialogo quotidiano che genericamente è assorbito da richieste di informazioni del tipo: “come è andata oggi a scuola?”, “hai tanti compiti per il week-end?”, “cosa regaliamo a Paolo per il suo compleanno?”, “hai preparato la borsa per il calcio?”.

Tante volte essere adulti comporta un prevalere della razionalità, del bisogno di incasellare tutto e tutto tener sotto controllo, che noi per primi perdiamo confidenza con le nostre emozioni. Nei bambini la componente emotiva prevale invece su quella logica e da ciò potrebbe nascere la nostra difficoltà a relazionarci con loro sulla base di un rapporto di tipo emozionale.

Spesso noi mamme ci lamentiamo del fatto che i nostri figli non ci raccontano quanto noi vorremmo, tante cose le apprendiamo da altri (maestre, nonni…).

Ma siamo così sicuri che i nostri figli davvero non ci raccontino? Magari semplicemente non ci raccontano a parole, ma con gli occhi…