E’ stato presentato al Sundance Film Festival 2009 il film “The Horse Boy“, tratto dall’omonimo libro di Rupert Isaacson, pubblicato in Italia da Rizzoli. Si tratta del racconto autobiografico di un viaggio attraverso la Mongolia, che l’autore ha intrapreso con la moglie Kristin e il figlio Rowan , autistico. La diagnosi della malattia si è abbattuta sulla famiglia dell’autore nel 2004, 8 mesi prima che Rowan compisse 4 anni. In quegli 8 mesi ogni terapia è stata tentata. Gli unici segnali di miglioramento si sono manifestati quando il figlio era a cavallo, e in presenza di alcuni guaritori e sciamani boscimani. Di qui l’idea di affrontare un lungo viaggio in Mongolia: qui lo sciamanesimo è religlione di stato, e qui il cavallo è stato addomesticato, 6000 anni fa.

Un tour operator particolare del luogo, un uomo di nome Tulga, mette in contatto l’autore con 9 sciamani del posto. Al suo arrivo in Mongolia la famiglia si confronta con Sukhbat, presidente dell’associazione degli sciamani, che ha convocato intorno a sè guritori provenienti da tutto il paese. Si tratta infatti di una guarigione importante, ed è necessario che molti sciamani uniscano tutte le loro forze.

Da Ulan Bataar la famiglia si inoltra nell’entroterra mongolo, diretta verso il lago sacro, e poi ancora più a nord, verso il popolo delle renne, in Siberia, dove vive Ghoste, un guaritore molto potente. Ghoste, praticando un rituale in presenza di Rowan, della sua mamma e del suo papà, afferma che il bambino ha accettato la sua guarigione e migliorerà progressivamente fino a 9 anni, ma abbandonerà immediatamente le sue scenate: crisi di pianto, iperattività e ansia.

Questo accade in effetti subito, mentre il miglioramento segue gradualmente, a partire dal ritorno della famiglia a casa, negli Stati Uniti. Afferma l’autore a distanza di qualche anno che “Rowan è ancora autistico: la sua essenza e i suoi talenti sono inestricabilmente legati a questo”, ma che comunque “è stato liberato dalle terribili disfunzioni che lo affliggevano: la sua incontinenza fisica ed emotiva, le crisi neurologiche, l’ansia e l’iperattività”, pur non essendo stato curato. Il desiderio dell’autore è che il figlio continui a “navigare tra i due mondi, con un piede in ciascuno“, così come fanno gli immigrati, che mantengono un legame con la lingua e la cultura materna, ma allo stesso tempo imparano a destreggiarsi nel nuovo mondo dove vivono.

Anche da questo libro e film, così come dai diari di Fiona Haron-Field, di cui vi ho parlato l’altro ieri, mi pare che si possa cogliere una lezione fondamentale: è importante saper accettare i propri figli, anche se sono diversi, con tutte le loro peculiarità, aiutandoli fino a dove ci è possibile. Isaacson ha compreso che il bambino non deve rinnegare la sua natura, che è parte della sua identità, ma deve partire da quella per poter spiccare il volo nella nostra realtà, alla quale finalmente anch’egli ha accettato di prendere parte, grazie all’intervento degli sciamani mongoli.

Se avete letto il libro o andrete a vedere il film ci raccontate le vostre impressioni?

Immagine: webster.it

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