Nel 1992 a Ginevra è stata redatta una “Carta dei diritti dei ragazzi allo sport”; è formulata in nove punti ma sono due quelli su cui volevo soffermarmi con voi, quelli meno “tecnici”, quelli che ci coinvolgono direttamente come genitori: il primo e l’ultimo. Il punto Uno afferma…

il diritto di divertirsi e giocare, l’ultimo punto invece sottolinea il diritto di non essere un campione.

Quale mamma di un figlio maschio, era quasi matematico che andassi ad ingrossare le fila delle madri tifose di calcio, che seguono il proprio figlio in questo sport che tanto appassiona. Di settimana in settimana, ho visto tanti atteggiamenti, da parte di genitori come me, che proprio contraddicono i due punti della Carta sopra citata.

Lasciamo perdere il fatto che la quasi totalità dei papà dei bambini che giocano a calcio si “scopre” allenatore, ma chi sorprende di più sono proprio le mamme, che non sempre si limitano a tifare, anzi spesso incitano i bambini a comportamenti scorretti pur di portare a casa una vittoria.

Dov’è finito, mi chiedo allora, il sano divertimento che dovrebbe essere il principio di ogni sport? Se noi mamme per prime sproniamo i nostri figli solo ad alte prestazioni, che non contemplano sbagli o sconfitte, come possiamo poi recriminare se diventano competitivi, di una competitività negativa, che non implica crescere nella capacità di riconoscere che si può anche perdere?

Altrettanto negativo è caricare i nostri figli di aspettative; sembra un luogo comune ma pensiamo mai al carico eccessivo che facciamo pesare sulle loro spalle, se trasformiamo ogni loro attività in campi nei quali devono a tutti i costi eccellere?

Siamo adulti e conosciamo quanto l’ansia da prestazione uccida qualsiasi piacere in nome dell’obiettivo da raggiungere; perché non lasciamo allora che i bambini siano semplicemente se stessi e non riflessi dei nostri desideri o rivalse?