Spesso pensiamo che chi lavora per una Onlus, come ActionAid, in realtà non faccia parte della realtà in cui opera: ma le cose non sono così, come ci raccontano due genitori adottivi, partiti per conoscere il loro bimbo in Brasile, e finiti a scoprire molto di più. Un intero mondo che lotta per avere un futuro, oggi però ancora immerso nella povertà nera.

Settimana scorsa vi abbiamo riportato un’altra testimonianza di adozione internazionale, dopo quella di Paola: proseguiamo con questa storia che viene dal Brasile, come promesso, con un racconto della realtà delle favelas. Due cose colpiscono da questo racconto: la condizione di povertà estrema in cui versa la popolazione, soprattutto quando si tratta di bambini e minori, e il fatto che chi lavora con ActionAid è qualcuno che sta cercando di cambiare un mondo sbagliato, quello da cui proviene, quello di cui fa ancora parte.

Sara ed Emiliano sono due genitori adottivi partiti alla volta del Brasile per conoscere il piccolo Matheus, come vi abbiamo raccontato. Il loro viaggio si è trasformato in qualcosa di più: non hanno conosciuto solo un bambino e la sua comunità, ma anche il contesto più grande in cui si inserisce quella vita.

Addentrandosi nella più grande favela di Rio de Janeiro, Cidade de Deus, Sara ed Emiliano hanno così scoperto un mondo scioccante: se decidete di continuare a leggere (perché non leggerete cose gradevoli), troverete una realtà per noi impossibile da immaginare.

Per leggere la prima parte di questo racconto, potete partire dalla pagina speciale dedicata alle adozioni a distanza.

Cidade de Deus: povertà, smog, anarchia

Nel taxi che ci porta dalla superba Copacabana all’estremo squallore della povertà, riusciamo a farci un’idea di quello a cui stiamo andando incontro semplicemente osservando il paesaggio umano che cambia sotto i nostri occhi. Dagli eleganti palazzi di Barra de Tijuca, gli edifici nei chilometri successivi assumono sempre più tratti di provvisorietà.

Il vetro e i colori di alcuni tra i centri commerciali più lussuosi di Rio de Janeiro lasciano spazio a una scenografia fatta di edifici trascurati, realizzati con materiali poveri e ispirati alla precarietà. Mano a mano che ci addentriamo nel cuore della favela, Celia ci racconta che qui lo Stato è praticamente inesistente: le scuole costituiscono di fatto l’unico servizio di cui si garantisce il funzionamento, ma per il resto – sanità, nettezza urbana e, soprattutto, sicurezza – ogni slum si organizza da sé.

Il Ceeac (Centro de Estudos e Ações Culturais e de Cidadania) si affaccia sull’arteria principale che attraversa la favela. Il rombo continuo delle auto che sfrecciano incuranti dei passanti e lo smog che, unito al calore che sale dall’asfalto, provoca la quasi impossibilità di respirare, rendono insostenibile sostarvi per più di qualche minuto.

Non che sia consigliabile farlo: non appena arrivati siamo invitati a varcare le grate di ferro che proteggono l’ingresso al centro per non rimanere oltre in balia di eventuali rapinatori.

Dolore e speranza: i giovani di ActionAid

Il nostro arrivo interrompe la riunione mensile di tutti i responsabili delle varie attività che si svolgono all’interno di questo centro nato diversi anni fa con lo scopo di favorire il recupero dei bambini e degli adolescenti che vivono all’interno della favela e a cui ci si sforza di far comprendere che la vita può dare altro che uno spaccio di droga o una pistola con cui procurarsi qualche soldo nella drammatica attesa di rimanere vittima di un conflitto a fuoco.

A colpirmi subito è la media d’età degli operatori del Ceeac: abituati come siamo a una pletora di consulenti ed esperti che superano la cinquantina, fa un certo effetto vedere alcuni educatori che sembrano poco più che ragazzi parlare con proprietà ed esperienza di come si realizzano le attività con bambini tanto difficili.

Ognuno di loro si presenta, con una certa dose di modestia e anche di imbarazzo fornisce informazioni e risposte alle nostre continue domande fino a quando una donna di circa quarant’anni ci chiede perché dall’Italia abbiamo deciso di venire proprio in Brasile e perché proprio a visitare la loro realtà.

Glielo spiego, parlo loro di Matheus, di Acaiaca e del nostro desiderio di capire qualcosa di più di un mondo che troppo spesso non riusciamo non solo a comprendere, ma nemmeno a intuire. E siamo ancora una volta noi a rimanere sbalorditi quando lei aggiunge che queste visite possono essere utili per far capire ai bambini il loro reale contributo nelle dinamiche del sostegno internazionale:

«Quasi sempre – precisa – i bambini coinvolti non ricevono risposta dai donatori e rimangono molto delusi di non essere considerati da loro, sentendosi quasi degli oggetti».

L’idea della delusione di un bambino mi disarma, mi abbatte e mi induce a pensare che anche la beneficenza o il sostegno all’attività di organizzazioni come ActionAid forse viene davvero fatto “con la mano sinistra”, ovvero più come qualcosa che è bene fare per poi togliersi il pensiero più che come un’azione intimamente ponderata.

Dentro la favela, mondo a parte

È Juan, un uomo nato e vissuto sempre qui, a guidarci per le vie del quartiere con molta circospezione, con atteggiamento naturale ma sempre vigile, raccomandandoci di non allontanarci mai da lui, tantomeno di prendere iniziative.

È lui che ci presenta i piccoli che incontriamo strada facendo, che sorprendiamo a giocare mezzi nudi in mezzo a pozzanghere, spazzatura e animali che vagano per le vie assolate.

C’è anche un padre con le sue due figlie che ci tiene a stringerci la mano e farsi fare una foto con loro. È evidente che la maggioranza degli abitanti della favela sono neri: neri di tutte le tonalità e le razze che qua si mescolano con infinita fantasia generando tonalità della pelle, grana dei capelli e taglio degli occhi del tutto inediti.

Del resto la promiscuità è uno degli elementi caratterizzanti di questa realtà, una consapevolezza che emerge fin dai primi incontri: in un bugigattolo di 20 metri quadrati, sdraiata su un divano lacero, sta una donna che allatta il suo quarto piccolo. È difficile darle un’età, così giovane come dev’essere ma già così sformata dalle quattro gravidanze generate da due uomini differenti e rese ancora più pesanti da una vita fatta di stenti.

Il neonato ha tre settimane e soffre di asma; avrebbe bisogno di ricevere delle cure in ospedale ma in ospedale lui c’è stato solo il giorno che è nato. Il padre, vedendoci e, come tutti, credendoci parte di un gruppo di esperti inviati dal governo per verificare lo stato della vita nelle favela, ci tiene ad attribuire la colpa della malattia del figlioletto alla fortissima umidità che addirittura si ha la sensazione di respirare nel buio di uno spazio senza finestre e in cui il tetto fatto di lamiera lascia intravedere il cielo in diversi punti.

E le chiamano case

Del resto nessuna di quelle che visitiamo può essere definita casa: si tratta solo di muri alzati con qualche mattone e un po’ di terra, molte lamiere a cercare di chiudere in qualche modo pareti e tetti. Nessuna pianta razionale, locali che si affastellano l’uno sull’altro senza un senso e che ostruiscono il passaggio della luce e dell’aria.

Nessuno spazio verde, nessun sistema di sicurezza minimamente affidabile, solo qualche finestra in un gruppo impressionante di abitazioni e impianti elettrici che sembrano dover saltare da un secondo all’altro.

Macchie di umidità dappertutto, mobili rotti, divani sventrati esposti alle intemperie, ai topi e agli insetti. Cucine che sono fuochi sporchi su cui bollono pentole di riso e stanze in cui i letti non bastano e le persone dormono per terra, nell’atrio, in cucina, nell’eventuale soggiorno. Dappertutto.

Essere disabili nel posto sbagliato

Una donna minuta, sdentata, i capelli grigi e l’aria infinitamente triste, ci invita timidamente ad entrare nella sua abitazione. Su una sedia, immobile, quasi ieratica, obesa, lo sguardo perso nel vuoto e le mani che si muovono solo per portare alla bocca cucchiai di riso bianco, scondito, sta una ragazza.

La salutiamo con un sorriso ma lei non fa una mossa, non sembra nemmeno accorgersi della nostra presenza e continua a ingurgitare il riso con gesto meccanico. «È sempre stata così», commenta la madre sconsolata in risposta ai nostri sguardi perplessi. E, aggiunge, «ha tredici anni». Tredici anni. Il pensiero mi colpisce all’improvviso in tutta la sua drammaticità. Tredici anni. Non sa cos’è l’adolescenza, non ha saputo cos’è l’infanzia e mai saprà cosa può essere il futuro. Nessuno glielo insegna, nessuno l’aiuta a capirlo.

Avrebbe bisogno di assistenza, di riabilitazione motoria e psicologica, di qualcuno che le mostri come si impara a parlare e a prendere coscienza del mondo intorno a sé. Non riceverà nulla di tutto ciò. Mentre non riesco a toglierle gli occhi di dosso penso che per lei nessuno predisporrà alcunché; non ci saranno servizi sociali né logopedista né fisioterapista e tantomeno pediatra. Ci sarà solo sua madre – del padre non c’è traccia alcuna – che finché vivrà si farà in qualche modo carico della sua sopravvivenza. E poi? Tutto sarà nelle mani di Dio.

La forza degli operatori di ActionAid

La favela mi appare così, accerchiante e spietata, asfittica, totalizzante, autoriferita. Un universo che si esplica e si esaurisce in se stesso perché tanto tutto ciò che c’è fuori appartiene a qualcosa di diverso e irraggiungibile. Lontano, troppo lontano.

Un essere vivente che espande i suoi tentacoli verso quella poca terra che è ancora vergine per lordarla, per renderla immune a qualsiasi progresso civile e sociale. Con immensa fatica gli attivisti di Ceeac e delle altre associazioni che in qualche modo riescono a operare al suo interno fanno il possibile per invertire la rotta.

La loro forza sta nell’essere nati nella favela, come Juan, che ci mostra senza imbarazzi né pietismi la casa in cui ha trascorso quarant’anni della sua esistenza, un edificio fatiscente, costruito per una parte in mattoni rossi e per il resto con materiali di fortuna che sembra sventrato da un’esplosione e invece, semplicemente, è sempre stato così.

La sua forza, la sua credibilità, la presa che fa sui ragazzi e che ci appare subito evidente, è quella di essere vissuto dentro la favela e di aver avuto la forza di cercare il cambiamento, in se stesso prima di tutto. È guardandolo che ti chiedi: «Perché lui sì e mille altri no? Perché per uno che sceglie di salvarsi, che sceglie la vita, mille altri scelgono l’autodistruzione?».

Forse se si riuscisse a rispondere a questa domanda si troverebbe un modo per convincere tutti che il futuro c’è, ci può essere ma va costruito, giorno per giorno, mattone rosso su mattone rosso. Delusione su successo, sconfitta su traguardo raggiunto.

Subito grandi: baby mamme e pistole

Impressioni che vagano, pensieri che cercano di librarsi nell’aria ferma di una giornata qualunque in una favela qualunque, continuamente interrotti dai bambini che ci si affollano intorno e che reclamano la nostra attenzione di stranieri. I bambini della favela sono impertinenti e sinceri come tutti i bambini, simpatiche canaglie in grado di farti loro con un sorriso, ma anche di scioccarti con un gesto che non appartiene alloro età.

Ne incrociamo tanti in questa insolita passeggiata in un mondo finora solo letto o visto per immagini in televisione, in queste strade in cui si procede con cautela e in cui sono gli stessi abitanti a non addentrarsi oltre un limite invisibile ma presente e invalicabile.

Madri, neonati, anziani; due ragazze al massimo quattordicenni che camminano per strada che indossano canottiere che non coprono i loro pancioni da gravidanza. C’è tutto il mondo dentro queste strade, c’è tutta la vita che conosciamo, ma è diversa, molto diversa da quella che nelle nostre vite protette dal degrado vogliamo vedere.

“Restiamo umani”

Loro ci stanno venendo incontro, stanno facendo di tutto per crescere, ma un’economia rampante non basta a creare l’umanità. Molti di loro cercano il riscatto: noi dobbiamo fare in modo che a cercarlo e a ottenerlo siano sempre di più.

Torniamo al Ceeac in attesa del taxi che ci farà riemergere da questa palude di amarezza. Qualcuno ha lasciato una scritta su una lavagna: «Don’t let your emotion run away».

 

Fonte immagine: www.blogs.elpais.com

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