Quando annunciai a mia madre che aspettavo un bambino (al telefono, dunque è anche un po’ colpa mia: avrei dovuto essere più teatrale) lei  reagì con un lungo, inquietante silenzio. Aspettò qualche secondo di troppo a congratularsi, quel tanto che bastava per rendere inequivocabile che, tra le emozioni che la stavano sopraffacendo, mancava la gioia.
Ma non sei contenta? Le chiesi.
Ci devo pensare, rispose.
Quindici anni e cinque nipoti dopo le ho posto la stessa domanda.
Le mi ha risposto con una lunga lettera rivolta a me, ma soprattutto a se stessa. Questa.

“Quando mia figlia mi annunciò di aspettare un bambino avevo 50-e-qualcosa anni e molti progetti. Sognavo un viaggio (rivedere New York!), pianificavo un’operazione di blefaroplastica, mi dedicavo a tempo pieno al mio lavoro e contavo di sviluppare un piccolo progetto imprenditoriale: l’apertura di un B&B. Inoltre, mi ero iscritta a un corso di inglese e avevo appena acquistato un abbonamento per la stagione teatrale. Un nipotino non era previsto. A dirla tutta, non mi allettava nemmeno l’idea: tutte e tre le mie figlie erano finalmente autonome, avevano una propria vita. Potevo finalmente concentrarmi sulla mia. L’idea di ricominciare la grande saga dei pannolini, degli svezzamenti e dei cicli scolastici, mi disturbava – anche se vissuta per interposta persona. E poi: nonna, io?

Nonna, io?!?

Le nonne che conoscevo erano persone molto anziane e molto lamentose, fisicamente alle prese con acciacchi che neanche capivo, mentalmente ferme in un passato che sentivo estraneo. Io ero ancora proiettata nel futuro. E mi sentivo giovane, anzi: lo ero! Quindi davanti alla notizia, anziché gioire, mi chiusi in un silenzio sgomento. Da un lato avevo una figlia spaventata all’idea di diventare mamma, dall’altro c’ero io, terrorizzata all’idea di diventare nonna. Cosa fa una nonna? Come interviene? Che tipo di aiuto dà? Non lo sapevo: fino a quel momento ero stata solo mamma. A venirmi incontro fu il pediatra che visitò la nipotina per le dimissioni dall’ospedale. Mi fermò sulla porta dello studio in cui tentavo di intrufolarmi – non riuscivo ancora a capacitarmi che mia figlia fosse diventata mamma a sua volta e ritenevo fosse mio pieno diritto – e disse semplicemente: «Signora, lei è la nonna». Si può dire che io, mia figlia e mia nipote nascemmo in quel momento nei nostri rispettivi ruoli. Nel frattempo la mia vita è continuata seguendo sentieri più tortuosi del previsto. Ho lasciato il mio lavoro e aperto quel B&B, ma non ho mai fatto quell’operazione di blefaroplastica e non sono mai più tornata a New York. Non ho neanche imparato l’inglese, ché ogniqualvolta mi spingessi oltre il «Would you like a cup of tea» nasceva un nuovo nipote e io interrompevo la frequenza dei corsi. Però sono stata due volte in Nuova Zelanda, dove vive la mia secondogenita con i suoi bambini, Scott e Anna. L’inglese lo sto imparando da loro: facciamo lunghe conversazioni in Italiese, su skype. Per la figlia geograficamente più vicina, invece, penso di essere stata fondamentale: lo stato non offre grandi aiuti né servizi alle mamme lavoratrici, io invece riprendevo le nipotine da scuola e le tenevo con me fino alla chiusura dell’ufficio. Un impegno talvolta pesantissimo, talvolta entusiasmante.

L’amore per i nipoti, struggente e intenso perchè libero dalle responsabilità genitoriali

Ho scoperto che l’amore per i nipoti, libero dalle responsabilità genitoriali, è struggente e intenso. A distanza di anni mi accorgo con gioia di essere riuscita a trasmettere ai miei nipoti la parte migliore di me: l’amore per la natura, il gusto della scoperta, una certa incoscienza nell’affrontare la vita, e un senso dell’umorismo un po’ surreale. Oltre che la passione smodata per i dolci a fine pasto, per assecondare la quale ho insegnato loro a preparare torte e biscotti. Ma non è questo che fanno le nonne?”. Nonna Silvana