Vorrei tornare sull’argomento “papà” dopo alcune riflessioni che mi ha suscitato la lettura dell’articolo di G.Cananzi “L’alba del nuovo padre”. Da qualche anno i media parlano dei “nuovi padri” come di uno fra i cambiamenti epocali: in qualche caso per denunciare la loro crisi – trasformati in “mammi” dall’identità ambigua – in molti altri per segnalare la loro presenza nella cura e nell’educazione dei figli.

La figura di padre che si sta facendo largo ha ancora i contorni incerti di chi sperimenta il suo ruolo senza i riferimenti di un tempo, visto che – seppur non abituato a parlare di sentimenti – quello che prova è strano, comunque lontano da quello che suo padre ha rappresentato per lui.

L’evoluzione del ruolo paterno pertanto dà luogo a due letture opposte: da una parte c’è chi legge questa come l’età dell’eclissi della figura del padre e di tutti i valori che essa rappresenta: la norma, l’autorità, l’ordine. Dall’altra c’è invece chi dà lettura di questa come l’epoca del “nuovo padre”, accudente e affettuoso.

Il dato comunque assodato è che il cambiamento della figura del padre è certamente in atto, ma procede con lentezza. Dai  risultati dell’Istat emerge infatti che, se è vero che i papà di oggi sono molti più coinvolti nella cura del figlio, è altrettanto vero che, alla sua nascita, il padre aumenta il tempo di lavoro rafforzando la funzione tradizionale di sostegno economico, mentre la madre diminuisce gli impegni esterni per incrementare la propria presenza col figlio.

Vorrei confrontarmi quindi con voi sull’affermazione delle sociologhe F.Zarczyk e E.Ruspini presente nel loro “Nuovi padri?” secondo la quale

“se non si può non riconoscere la crescente assunzione di responsabilità da parte dei padri, l’impegno paterno è nel contempo discontinuo, spesso limitato alle attività meno gravose e di routine e frequentemente esercitato in caso di necessità”.