L’epifania è arrivata alle ore 17 di un venerdì di novembre, poche ore prima che il mondo ci crollasse addosso,  mentre allungavo il passo per portare mio figlio Davide alla lezione di karate.

Camminavo in gran fretta e di malavoglia mentre lui mi scutrettolava dietro chiedendo di rallentare,  allora gli ho dato la mano per trascinarlo a forza e intanto mi chiedevo se la merenda che gli avevo offerto poco prima – una roba ai cereali e zucchero di canna  – non lo avesse appesantito troppo prima dello sport e rispondendomi che no, la merenda andava benone. Allora ho cercato nuovi motivi di preoccupazione, trovandone senza fatica nel vento che forse avrebbe colpito il bambino sudato facendolo ammalare – i primi freddi sono tremendi! – e arrabbiandomi con me stessa per non aver pensato di portare un ricambio più pesante.

E siccome un pensiero tira l’altro, ecco che già mi rimproveravo per non aver risposto al messaggio di Laura che invitava Davide al teatro per ragazzi “Per esporlo a qualcosa di più complesso dei telefilm in cui ragazzini in pubertà urlano tutto il tempo”.

Ero scettica sulla capacità di mio figlio di assistere a una rappresentazione di questo tipo, ma lei aveva aggiunto “Nel fine settimana bisogna pur  intrattenerli in qualche modo, sennò si annoiano”.

Ed eccola, l’epifania.

Intrattenere i figli: è un compito dei genitori?

Bisognava intrattenerli? No, che non bisognava. No, no, no, io d’ora innanzi mi sarei rifiutata di sentirmi responsabile del divertimento di mio figlio. Che ci pensasse da solo,  a intrattenersi,  ché io già dovevo preoccuparmi di accudirlo, preparargli pasti sani, farlo dormire un numero ragionevole di ore, controllare il suo stato generale di salute, curare il suo grado di pulizia, fare attenzione che facesse i compiti (aiutandolo di tanto in tanto), spidocchiarlo alla bisogna.

Divertirlo no, non era e non sarebbe stato il mio compito.

Ma da lì in poi i pensieri hanno iniziato ad arrivare a cascata.

Non era tutto “un po’ troppo” quello che facevamo noi genitori – noi mamme, soprattutto?  Non eravamo troppo presenti nella vita di questi bambini, non li stavamo privando della noia, non li stavamo asfissiando con  il nostro farci carico di ogni bisogno, ogni urgenza, ogni capriccio, paturnia, preoccupazione?

Mentre mi avvicinavo alla palestra sentivo arrivare i messaggi delle mie amiche che discutevano via What’sApp sui corsi pomeridiani a cui iscrivere i figli per trovare l’incastro perfetto tra orari, logistica e compiti, preoccupandosi nel contempo di certe polemiche insorte tra le ragazze e le loro amiche e suggerendosi reciprocamente soluzioni diplomatiche per trarre tutte di impaccio.

Non era un po’ troppo?

Una volta arrivati in palestra ho aiutato il mio settenne a spogliarsi. Non ero sola: accanto a me, ciuffi di genitori si rubavano lo spazio per accelerare le operazioni piegando e riponendo in maniera ordinata i vestiti di ognuno. Un paio di bambini se ne stava lì, passivo, mentre i papà si affannavano attorno a borse da palestra.

Non era un po’ troppo?

Sono tornata a casa di corsa, ho dato una mano a Lara nei compiti di inglese e intanto ho risposto alla telefonata di Barbara che mi informava di avere preparato un meraviglioso calendario dell’avvento assieme alla figlia “Perché fare lavori manuali assieme crea il bonding e rilassa, e poi era bellissimo”.

Ero davvero contenta per lei. Ma non è un po’ troppo?

(post scriptum: e poi, qualche giorno dopo, ne La 27esima ora – blog al femminile del Corriere della Sera, la giornalista Maria luisa Agnese ha posto le stesse domande in questo post. Vorrei sentire anche io le vostre voci sul tema).