“Mamma! – mormora la bambina mentre pieni di pianto ha gli occhi – alla tua piccolina non compri mai balocchi, mamma tu compri soltanto profumi per te”.

La nonna sì che sapeva come farmi piangere! Oggi però la signora egoista e profumata della canzone rimarrebbe in solitaria controtendenza: i pochi soldi che sono rimasti da spendere in abbigliamento, vengono spesi nel reparto bambini “dentro il quale sono disposta a fare delle vere follie” conferma Serena. “Quando ancora ero una puerpera incosciente ed entusiasta”- racconta –  “acquistai una tutina da 3 mesi in cashmere morbidissimo. Tempo di utilizzo al netto dei lavaggi: 7 ore.  Mai più, mi ero detta. Ma adesso che ho avuto i risultati dell’amniocentesi ho festeggiato acquistando alla secondogenita delle magliette firmate. La morale? Che gli anni passati non mi sono serviti a maturare”.

Abbigliamento bambini: dati di vendita e cifre esagerate

Consolati Serena, non sei la sola. Lo dimostrano i dati di vendita del childrenwear, stazionari a dispetto della crisi e della denatalità. Con qualche esagerazione:  “Oggi un’amica mi ha portata davanti alla vetrina di un negozio per bimbi, in centro a Milano. Ho visto abitini da bimba, pantaloni e polo a centinaia di euro a capo. Ma davvero c’è gente disposta a spendere cifre del genere per vestire un bimbo di 3 o 4 anni che dopo dieci minuti sarà a rotolarsi per terra?” Chiede Antonella.

“Ogni famiglia ha una diversa capacità di spesa e quello che per qualcuno è troppo, per altri è troppo poco. Si dovrebbe poter spendere il proprio denaro  senza che questo implichi un giudizio di valore sulla persona”  afferma Daniela, la material girl del gruppo. Brava Daniela, sono d’accordo. “Tuttavia…”   si?   “…certe cifre paiono  immorali persino a me!”

Cosa induce un genitore a spendere per il proprio figlio?

“Benvengano le famiglie disposte a spendere cifre irragionevoli. Fanno girare l’economia” si indispettisce Nadia che è sì disoccupata, ma pur sempre  keynesiana e crede nel libero mercato. Confesso: nemmeno io sono immune dalla frenesia dell’acquisto 0-12 e se qualcosa mi ha salvato dalla dissennatezza non è stato il buon senso, ma una capacità di spesa di gran lunga inferiore ai miei desideri.
Sono stata quindi costretta a riflettere sulla questione. Cosa porta un genitore a spendere per il proprio figlio piuttosto che per se stesso, anche a costo di alterare i delicati equilibri dell’economia familiare? Perché riesco a rinunciare all’accessorio di tendenza  –  perché non posso più permettermelo, essenzialmente  – mentre  davanti a un scarpina nr. 29 non rispondo di me?

Desiderio di compensazione

Per capirlo, ho fatto una ricerchina nell’internet. Pare che io sia una persona irrisolta con desideri di compensazione, la classica madre frustrata che realizza le proprie aspirazioni costringendo i figli a vivere la vita che avrebbe voluto per sé.

Terribile, ci sono rimasta malissimo.

Ma il web dice il vero: ho passato l’adolescenza invidiando i capi firmati e colorati dei miei amici, e se devo scegliere tra acquistare qualcosa per me o qualcosa per i ragazzi, preferisco accontentare loro. La loro soddisfazione è la mia. Anzi: è la mia soddisfazione a essere la loro.

Ma con la nuova consapevolezza ho provato a invertire la tendenza. Sono rimasta a lungo con una manciata di euro in mano, pensando a quale dei miei desideri accantonati meritasse di essere esaudito per primo.
Molto a lungo.
Troppo a lungo.
“Me li dai, che ci compro le scarpe di tela per la primavera?” ha chiesto la primogenita. E io l’ho accontentata. In realtà, non aspettavo altro.