Quando il mio piccolo D.F. e’ arrivato da noi era affetto dalla “Sindrome del bambino congelato”, cioè era freddo e distaccato verso il mondo e interagiva minimamente con l’ambiente circostante.

Questo era dovuto allo stato di abbandono fisico ed emotivo in cui versava quando finalmente è stato dato in affido e poi in adozione. Ne ho parlato a lungo nel mio articolo precedente.

Questa volta vorrei parlare invece del pianto del mio bambino, anzi dei tanti tipi di pianto, di come ho imparato a riconoscerli e gestirli con amore.

All’inizio, il mio bambino piangeva poco, un po’ perchè ancora lo stavamo “scongelando” e un po’ anche perché, forse, pensava che non piangendo e facendo “il bravo” lo avremmo accettato e tenuto con noi. La paura di essere spostato ancora e di dover perdere un’altra famiglia faceva 90!

Dal pianto disperato al pianto “normale”

Poi, dopo qualche mese, è arrivato all’improvviso il pianto notturno disperato ed incessante. Con il cuore in subbuglio abbiamo parlato con una brava psicologa infantile che ci ha fatto capire che il bambino stava sfogando i suoi traumi interiori. Questo era un pianto molto importante, anzi necessario per la guarigione della sua anima e quindi la cosa migliore da fare era lasciarlo sfogare, essere lì presenti senza stargli addosso. E così abbiamo fatto.

Una volta che le cose si sono pian piano normalizzate sono iniziati i pianti diciamo “normali” che hanno tutti i bambini.

“I neonati hanno bisogno di piangere almeno due ore al giorno”, dicevano le nonne, “per rinforzarsi i polmoni”. Una nonna hippy avrebbe detto che in realtà piangono per liberarsi del trauma della nascita, che mi convince molto di più.

Che potevo fare quando il pargolo piangeva? Prima di tutto analizzavo attentamente la situazione e controllavo che tutti i suoi bisogni fossero soddisfatti, soprattutto trattandosi di un bambino che era stato trascurato nei sui bisogni piu’ fondamentali. Una volta sicura che il piccolo fosse asciutto, nutrito, pulito e soprattutto sano e che non avesse paure o pene emotive da sfogare, la soluzione era solo una: lasciarlo piangere. Ci voleva tempo e pazienza, ma funzionava. Il bambino doveva sapere che gli ero vicino, perciò andava bene sia andare nella stanza accanto che rimanere nella stessa stanza e, per quando le urla erano più potenti e i singhiozzi tanto insistenti e penosi, la pediatra mi ha dato un consiglio davvero inaspettato e per me molto insolito: mi ha suggerito di mettermi i tappi per le orecchie!  Ero in stato di shock quando me l’ha proposto, ma poi per disperazione ho provato. E ha funzionato: il pianto si sente comunque, ma almeno non va diritto al cuore e al cervello di mamma.