L’adozione e’ un modo particolare di essere mamma, che comporta dinamiche psico-emotive molto diverse dalla maternità naturale

Nella mia esperienza, nonostante tutti i corsi fatti e tutto il gran parlare degli assistenti sociali, niente e nessuno mi ha preparato all’impatto di portare a casa un “piccolo sconosciuto” e di imparare ad amarlo come mio figlio.

Ho dovuto scoprire da sola e poi gestire la depressione post-adozione, l’ambivalenza della madre adottiva verso il bambino, e soprattutto il trauma del mio bambino, che si è ritrovato improvvisamente circondato da persone, suoni, odori e luoghi nuovi. E lo stesso è successo a mio marito dal punto di vista paterno.

Il supporto post-adozione dei servizi sociali poi è inutile, pochi lo usano per paura che i servizi sociali si riprendano il bambino. Quindi, a meno di avere un’amica o una parente che ha adottato, una mamma adottiva è da sola col suo bambino in un groviglio di emozioni.

Io ho trovato sistemi pratici per gestire situazioni complicate e il mio desiderio e’ di condividerli con le mamme adottive per aiutarle a non sentirsi sole.

Quando chiamarlo “mio figlio” proprio non funziona…

Quando il piccolo D.F. è arrivato a casa, uno dei primi drammi che ho vissuto è stato il fatto di non riuscire a chiamarlo mio figlio. Tutti dicevano “che bello tuo figlio”, “sei contenta che finalmente hai un figlio?”, ma io sorridevo e annuivo senza capire.
In che senso mio figlio? Ma chi? Quel bambino appena arrivato che non so neanche chi è?

Sembra un atteggiamento estremo ed ingrato, ma è vero. Mi è successo cosi! Non mi relazionavo, la mia mente non lo riconosceva come figlio e la parola era per me vuota di significato al punto che non riuscivo a dirla. Quando cercavo di inserire nel discorso la parola“figlio” sembravo Fonzie di Happy Days quando cerca di chiedere scusa: mi usciva solo un patetico balbettio. Poi ci restavo malissimo e piangevo.

Perché mi succedeva? Col tempo ho capito una cosa semplicissima:

l’amore non ha un interruttore per accenderlo quando si vuole, l’amore e’ come una piantina che cresce piano piano…

portando a casa il piccolo avevo piantato il semino e adesso dovevo solo avere la pazienza di aspettare che germogliasse. Ma nel frattempo, come potevo chiamare D. F. se non mio figlio?

Un giorno, dopo averci pensato e ripensato e pregato e sperato di trovare una soluzione, Eureka! Lo chiamerò “il mio bambino”! E’ stato l’uovo di Colombo e ha funzionato a meraviglia. “Mio” perché comunque era con me, a casa mia e nella mia vita; “bambino” perché era effettivamente un bambino. Mentre le parole “mio figlio” descrivevano uno stato emotivo, per cui io non ero ancora pronta, un amore che ancora non sentivo, le parole “mio bambino” riflettevano un semplice stato di fatto e quindi erano facili da dire.

Quando mi sono tolta dal cuore il peso di dovere amare il mio bambino a comando, l’amore è sbocciato!