Sì, sono io, Sonia, 43 anni, incinta da quasi 4 mesi nonostante i fibromi e i pareri dei medici. Io, che l’ho detto solo alla mia famiglia e a nessun altro perché ho paura che il fagiolino che porto dentro di me sia solo un bel sogno che può svanire da un momento all’altro. Ma sono sempre io che ho quasi superato il trimestre e che mi sento finalmente ottimista, che posso smettere di trattenere il fiato e godermi di più questa gravidanza, magari finalmente comprare qualcosa per il mio bambino….
L’inizio della salita
Ed invece… finisco al pronto soccorso dopo una giornata lavorativamente stressante che mi fa sentire in colpa verso il mo fagiolino. Mi sembra che qualcosa non vada, voglio essere rassicurata. Sono in preda all’angoscia, quando la ginecologa di turno mi dice che il bambino sta bene “Ma glielo devo dire, è mio dovere, non starà lì ancora per molto questo bambino”. Vado in cortocircuito. Comincio a guardare la carta igienica ogni volta che faccio pipì.
Alla fine del terzo mese si è colliquato uno dei miei miomi, il che significa che non gli è arrivato abbastanza sangue ed è “morto” causandomi dei dolori tipo colica. Inutile dirvi della corsa al pronto soccorso in piena notte e del fatto che poco possono fare i medici per calmare questi dolori così lancinanti a parte somministrare una flebo di tachipirina. Il punto è che quando i miomi colliquano diffondono delle sostanze infiammatorie che possono stimolare le contrazioni. E non si può fare nulla per prevenirlo, può succedere in qualsiasi momento… in qualsiasi momento potrei avere/perdere il bambino.
La mia ginecologa mi comunica che, viste le mie particolari condizioni e non lavorando più in ospedale, è costretta a indirizzarmi verso una clinica idonea. Mi dice di stare tranquilla perché sono a rischio di parte prematuro ma sarò ben monitorata e seguita, con visite più frequenti proprio per essere pronti per ogni evenienza. La gravidanza, mi dice, è una lunga maratona… A malincuore e fiduciosa accetto questa notizia e comincio l’iter per essere presa in carico da una delle eccellenze milanesi. Per me il quarto mese è stato bellissimo, ero piena di energie e mi sentivo bene, avrei potuto saltare i fossi.
Le notizie shock
La prima visita nella nuova struttura è uno shock, una doccia fredda, come se un baratro si fosse aperto sotto i miei piedi: ai 3 fibromi di partenza se ne sono aggiunti altri 6. Tutti extrauterini. Puff! Si sono materializzati dal nulla. La dottoressa mi rimprovera, mi dice che non sarei mai dovuta restare incinta, che se mi fossi rivolta a loro mi avrebbero consigliato di congelare gli ovuli. Ma il peggio dovevo ancora sentirmelo dire. Un mioma, in particolare, la definizione scientifica è peduncolato, poteva torcersi e questo avrebbe causato non solo dolori atroci ma la necessità di un intervento che avrebbe messo a rischio la vita del mio bambino.
Poi, mi è stato detto che per la letteratura scientifica, viste le casistiche, c’era il rischio di malpresentazione fetale, cioè i miomi avrebbero potuto schiacciare il bambino causandogli delle malformazioni. Mi dicono con freddezza glaciale che devo prepararmi ad essere ricoverata per lunghi periodi e che non ho ancora superato il quinto mese, posso ancora perdere il bambino. Mi dicono che è molto probabile che potrei partorire tra la 25esima e la 27ettesima settimana e che quindi il bambino potrebbe nascere prematuro e avere bisogno di trattamenti mirati per la preparazione dello sviluppo dei polmoni e poi restare in terapia intensiva neonatale per molto tempo.
Inoltre, non per ultimo, ho la placenta previa e un mioma che potrebbe causare problemi al momento del cesareo e che potrebbe comportare la perdita dell’utero. Mi dicono anche che è meglio che stia a casa dal lavoro. Inutile dirvi lo smarrimento e la disperazione in cui sono uscita da quella clinica. I pianti. Fermati solo da mia madre che mi ripeteva che tutto questo faceva male al mio bambino…
Addio, vecchia vita…
Qualche giorno dopo ho avuto un blocco intestinale che mi ha causato un’infiammazione del colon che mi ha messo KO con dolori costanti giorno e notte. Stavo bene solo semisdraiata. Ho preso dei giorni di malattia, pensavo di rimettermi ed invece i giorni sono diventati un mese e la malattia, mio malgrado, si è trasformata in un’astensione dal lavoro. Per me è stato un dramma, amo il mio lavoro a scuola e i miei ragazzi avevano bisogno di me, sentivo di lasciarli, di deluderli, ma non potevo fare altrimenti.
Cosa avrei fatto a casa? Io, abituata a fare mille cose ho dovuto imparare a rassegnarmi ad una nuova vita, a convivere con un corpo imprevedibile, ad imparare a stare per ore sdraiata e anche da sola.
E’ stata particolarmente dura perdere l’indipendenza. Non potevo più guidare, per qualsiasi cosa dovevo chiedere di essere accompagnata. Anche a casa ho avuto bisogno di una mano per tutto: dalle pulizie ad entrare ed uscire dalla vasca da bagno. Ho dovuto dire addio alla mia privacy.
E anche a delle piccole inezie, come lo smalto, perché se c’è un’urgenza è meglio non averlo. A tenere la borsa dell’ospedale sempre pronta, a dover rispondere ad ogni telefonata per non far preoccupare nessuno. Data la mia condizione e i miei dolori, uscivo solo accompagnata per una breve passeggiata.
Insomma, mi ero trasformata in un esserino fragile che però doveva essere forte per il suo bambino.
La priorità era il mio bambino. Questa era l’unica cosa importante. Ho accettato e imparato presto ad azzerare quasi tutta la mia vita, avrei dedicato questi mesi solo a portare a termine la mia gravidanza nel migliore dei modi.
Un buon medico fa la differenza
Una delle prime decisioni che ho preso per la mia salute e quella del bambino è stata cambiare ospedale. Non ho mai messo in discussione la qualità della struttura ospedaliera, ma io, per il mio carattere e la mia situazione, sentivo la necessità di rapportarmi con medici empatici, che non mi spiegassero la situazione senza gettarmi nel panico o rimproverarmi. Cercavo una squadra che mi supportasse dal punto di vista medico e psicologico. Grazie a delle conoscenze sono stata indirizzata in quella che è stata la mia fortuna, una struttura eccellente con uno staff di medici che si sono presi cura di me e mi hanno fatto trascorrere un periodo di grande serenità e allegria.
Io e il mio fagiolino, che nel frattempo si era trasformato in una polpettina (sì perché è una femminuccia), stavamo bene e, viste le condizioni attuali, c’era motivo di credere che avrei portato a termine la mia gravidanza regolarmente, al nono mese.
Una bomba ad orologeria nella pancia
Sono state giornate bellissime, la mia polpettina cominciava a tirare i suoi primi calci, io cominciavo a farle sentire la musica classica e a preparare la casa per il suo arrivo. Che emozione comprare il passeggino, la culla, le tutine! Ricevere i primi regali! Avevo vicino tutta la mia famiglia, perché grazie alla polpettina, i miei genitori separati, si sono riavvicinati. Insieme a mia mamma, mio padre e la sua nuova moglie abbiamo montato la culla. Per me era qualcosa di inimmaginabile fino a qualche mese prima. Ma forse quando si dice che è troppo bello per essere vero… è perché lo è.
Finisco per due giorni consecutivi al pronto soccorso, prima con delle contrazioni e poi con delle perdite di sangue. Tutti e due falsi allarmi, ma che fanno ripiombare l’intera famiglia nell’angoscia delle mie condizioni. Alla visita di controllo per la mia placenta previa, che nel frattempo era risalita, si accorgono che qualcosa non va. Non trovano il cordone ombelicale. Cioé, non è dove dovrebbe essere. Dopo tre ore di visita accurata arriva la diagnosi: vasi previ velamentosI, in parole povere il cordone ombelicale non si sviluppa al centro della placenta ma all’apertura del cervice che è l’ingresso del canale del parto. Inoltre, il cordone ombelicale è come un tubo senza guaina di protezione, quindi i vasi sanguigni in esso contenuti restano più delicati e in caso di contrazioni si potrebbero rompere causando il dissanguamento del feto. Ho letto su Internet che spesso non si riesce a raggiungere il pronto soccorso in tempo.
Non si può fare nulla oltre a quello che già faccio. Devo convivere con questa bomba ad orologeria.
Può succedere, ma anche no. Devo aspettare 20 giorni a casa per poi essere ricoverata in ospedale, qui aspetterò altri 20 giorni, un mese, se tutto andrà bene, di partorire alla 36esima settimana.
La mia reazione, inaspettatamente, è stata fredda, non potevo far sentire al mio bambino, tutta la mia angoscia, una mamma deve far sentire al sicuro il suo piccolo.
Non ho pianto. Ho cercato di affrontare un giorno alla volta mentre il mio pancione cresceva sempre di più, mentre la mia polpettina si muoveva cercando di girarsi a testa in giù, lottando con i miomi troppo grandi, due da 10 centimetri, e alla fine riuscendoci. Sono stata forte, salda, determinata, in attesa della fine di questo temporale, dove, ero sicura, sarebbe arrivato l’arcobaleno.
So che non sono stata, non sono e non sarò l’unica donna ad aver vissuto una gravidanza a rischio, anzi, c’è chi ha vissuto con patologie e rischi peggiori. Mi sento solo di abbracciare tutte perché è una guerra solitaria e tutta interiore quella che si vive, nonostante la vicinanza della famiglia. E’ la prima esperienza che ci fa scoprire la forza delle mamme e l’amore incondizionato verso il nostro bambino che è lì ad aspettare di essere preso tra le nostre braccia.