Il dolore del parto viene descritto come uno dei più grandi dolori della nostra vita. Difficilmente si sente questa affermazione seguita da un discorso di valorizzazione di questa esperienza.

Ci sono molte realtà, al momento piccole e alternative, che si prefiggono di creare una cultura positiva del parto e del significato del suo dolore.
Cominciano a esistere libri, conferenze, documenti in rete, che provano a far comprendere quale senso ha il dolore, la contrazione, il processo del travaglio.

 

Quel dolore è l’unico modo che il corpo ha di parlare e indicare alla donna una via da percorrere perché il parto sia il migliore possibile: il suo significato è di indurre la ricerca di una migliore posizione, un clima più riservato ed intimo, o al contrario a chiedere aiuto.

 

C’è una forte correlazione tra il modo in cui si partorisce e la depressione post-partum: molte sensazioni che esplodono in quei momenti hanno bisogno di molto e molto tempo per essere “digerite”, assimilate, e quando qualcosa in quegli attimi si blocca, l’intero processo richiede un tempo ben più lungo per essere elaborato.

 

Si parla molto di prevenzione della depressione post-partum, lasciandosi spesso sfuggire come questo percorso preveda non tanto l’applicazione di criteri diagnostici che vadano a cercare nella donna caratteristiche predittive e, oserei dire, catastrofiche.

 

E’ vero, esiste una predisposizione personale alla depressione, esiste un percorso di vita attraverso cui si struttura una modalità di entrare in relazione con gli altri che certamente influisce anche nelle dinamiche di questa tappa della propria vita.

 

Esistono però anche dei fattori legati all’Ambiente, sui quali sarebbe possibile intervenire per costruire la probabilità di esiti migliori per il parto di ciascuna donna.

 

La logica assistenzialistica, spesso anche in ambiente psicologico, responsabilizza la paziente (nota bene: in alcuni contesti non sempre si usa il termine “la partoriente”!) in modo quasi univoco e la rende passivo oggetto di cure senza che talvolta le vengano forniti strumenti per poter costruire attivamente il proprio benessere.

 

C’è da dire che spesso le donne chiedono questo: dimmi cosa fare e lo farò, è certamente una via più semplice e più breve, che però di lascia totalmente sole ed impreparate al momento delle dimissioni dall’ospedale.
Fuori, a casa, quando siamo meno controllate e monitorate, c’è tutta una vita da ricominciare.

 

dott.ssa Marcella Agnone – Psicologa Psicoterapeuta

 

foto: www.caffe.ch