Nella vita di una persona essere e appartenere si alimentano a vicenda. Essere non è una condizione statica, che si acquisisce in un dato momento, ma è in continua evoluzione, si acquisisce solo per gradi. In effetti, potrebbe essere più corretto fare riferimento alla parola “divenire“, piuttosto che “essere”. E’ così che l’appartenenza diventa intessuta nel processo del proprio divenire: la crescita.

Sicuramente sembrerà una diatriba filosofica provare a pensare se nella nostra vita viene prima l’essere o l’appartenere. Se il primo termine infatti richiama la nostra unicità, il secondo ci lega ad un modo fatto di cose ma soprattutto di relazioni.

Il bambino nasce in un mondo. Sin dalla vita intrauterina, il mondo immediato del bambino è la madre: in quel momento, semplicemente, lui appartiene alla madre (non nel senso di “è di suo possesso” ma “è parte di”), colei che soddisfa i suoi bisogni.

Mano mano che il bambino matura, si verifica una nascita psicologica: il bambino comincia a differenziarsi dalla madre e comincia ad essere indipendente cominciando a relazionarsi con gli altri: padre, fratelli, parenti, nonni, vicini di casa.

In un primo momento il bambino è passivamente introdotto nella comunità della famiglia: tutto ciò che gli viene richiesto è un minimo sorriso. Nei suoi primi anni, però, è previsto che si cercherà di coinvolgerlo attivamente, per mantenere l’appartenenza alla comunità. Inquesto senso, l’appartenenza è un’attività che richiede tempo, energia e impegno.

In questo senso, la famiglia dev’essere preparata nell’arco della crescita ad assolvere al compito richiesto: il cambiamento. Quando cresce un ragazzo, infatti, non cambia soltanto lui, ma l’intera sua famiglia.

Nella storia di ogni adolescenza il tema ricorrente è uno: l’ambivalenza (con tutte le sue contraddizioni) tra il bisogno di mantenere i profondi ed ancestrali legami con la propria famiglia, e l’altrettanto impellente bisogno di “disfarsene” in favore di altri legami, in questo periodo apparentemente più importanti, come quello con i coetanei.

L’appartenenza è rassicurante. La costruzione di un nuovo senso di sé è ciò che fa crescere differenziarsi.

Andare oltre questa ambivalenza significa avere una visione unica dell’adolescente e della sua famiglia, e di percepire questo tema non solo come vincolo ma come risorsa.

La disfunzione del periodo adolescenziale, del resto, non può essere attribuita solo al comportamento del ragazzo, ma rappresenta un percorso che coinvolge l’intera famiglia, che con il contribuito di tutti i suoi membri partecipa a mantenere lo status quo o a favorire lo svincolo ed il cambiamento.

Come affrontare dunque il periodo adolescenziale? Ne parleremo ancora nel prossimo articolo.

Marcella Agnone – Psicologa Psicoterapeuta