Ci sono luoghi che non hai mai cercato, ma che ti vengono incontro quasi per un curioso incrocio del destino: dev’essere andata così, per due italiani e un bambino brasiliano del Minas Gerais, alle spalle di Rio de Janeiro. Ecco il Brasile che non racconta nessuno.

Come mamma, come donna, come persona civile, faccio fatica a restare indifferente quando leggo certe testimonianze sulle condizioni di vita in altri luoghi del mondo. Tuttavia fare finta di nulla non aiuta a cambiare le cose.

In questo nuovo post nato dalla collaborazione fra Blogmamma e ActionAid, i cui sviluppi potete sempre seguire sulla pagina speciale creata appositamente, vogliamo tornare sulle testimonianze di chi ha adottato non solo un bambino, ma un pezzo di mondo. Sono punti di vista preziosi, perché ci consentono di misurare una differenza insostenibile stando lontani dalla retorica.

Lo avevamo già fatto con Paola, mamma a distanza del piccolo Mateus, sempre in Brasile. E in Brasile, paese su cui ActionAid focalizza in particolare, torniamo con le parole piene di emozione di Sara Re ed Emiliano Rizzotto, genitori a distanza di Matheus, di Acaiaca, nello stato del Minas Gerais, alle spalle di Rio de Janeiro.

Del loro viaggio, avvenuto in luglio, hanno fatto un resoconto molto dettagliato che parte dall’incontro con Matheus e arriva a descrivere una realtà povera in ogni senso, ma che lotta per la dignità e per uno sviluppo sostenibile.

Leggendola mi sono messa spesso le mani davanti agli occhi, ma chiuderli non serve a nulla. Forse ActionAid può aiutarci a tenerli aperti dando una speranza anche a questa miseria, ai bambini scalzi, alle mamme bambine, alle case col tetto in eternit, alla violenza assoluta delle favelas.

Dividendo questa lunga testimonianza in due, riserveremo alle favelas un post specifico. Parlarne qui sarebbe stato davvero troppo.

Brasile, la terra del riscatto

Ci sono luoghi che si cercano una vita, che si è certi di conoscere anche se non ci si è mai stati. Ci sono luoghi, invece, che non si sono cercati, di cui si è distrattamente sentito parlare e a cui non si è associato alcun particolare progetto di vita. Il Brasile per noi è stato un luogo così.

Ci è venuto incontro da sé. Si è presentato con il volto perplesso di un bambino di cinque anni che in fotografia non sa nemmeno bene in quale direzione guardare, serio e ordinato nella sua felpa blu e nelle sue scarpe da ginnastica sullo sfondo di una vegetazione tropicale. Si è presentato impacchettato come un regalo inconsueto.

È in questo modo, da un abbinamento casuale tra due italiani e un bambino brasiliano generato da un’adozione internazionale, che è nato un viaggio che è allo stesso tempo un percorso ricco, complesso e articolato che ci ha portato dall’altra parte dell’oceano e che continua ancora oggi.

Il viaggio

Il viaggio di Sara ed Emiliano è stato lungo ed estenuante, ha quasi il sapore di un pellegrinaggio: in aereo fino in Brasile con scalo in Portogallo, poi 8 ore di autobus da Rio de Janeiro in autobus fino a Viçosa in compagnia di Celia Bartone, coordinatrice delle adozioni a distanza per l’America Latina, un’operatrice, un’amica, una fonte di informazioni preziosa. E da lì ancora verso Acaiaca, nel Minas Gerais, a trovare Matheus.

Le superbe e ricche spiagge di Rio, i morros che rendono il suo skyline così unico e immediatamente riconoscibile, dopo pochi chilometri già lasciano il posto alle favela che vediamo svilupparsi per chilometri, sulle colline, lungo le pianure, attorno ai fiumi che circondano la città, ancora e ancora, svelando centinaia di bambini scalzi e vite che non riusciamo nemmeno a intuire. Quando finalmente la città finisce, arrivano le montagne: si sale e si sale ancora verso l’interno del Paese ammirando scenari mozzafiato.

Solo dopo otto ore approdiamo a Viçosa, la città da cui partiremo per raggiungere Acaiaca, conoscere il piccolo Matheus e visitare la sede dell’associazione locale con cui opera ActionAid. È con una certa emozione che, a cena, ascoltiamo Celia parlarci dell’indomani e teniamo tra le mani il volantino che pubblicizza la Festa do trabalhadores che si terrà tra le campagne del Minas, a cui i contadini e le famiglie che di essa sono protagonisti ci hanno invitato a partecipare.

L’incontro con Matheus

Acaiaca, tra la terra e il cielo

L’emozione, quella vera, ci pervade la mattina successiva, quando accompagnati da Fernando e Josè Antonio, volontari del Cta – l’associazione locale che lavora in partnership con ActionAid – ci mettiamo in viaggio per raggiungere la nostra meta. Intorno a noi un silenzioso paesaggio di foreste, campi e qualche persona che cammina a lato della strada, diretta chissà dove. Mentre poniamo a Celia un milione di domande, non ci accorgiamo di inoltrarci ancora di più in una regione che di turistico ha sempre meno mano a mano che si procede.

Una volta arrivati ad Acaiaca – una fila di case basse costruite intorno a una via principale – c’è Delenie, responsabile del Cta di Acaiaca. Ci accoglie nel suo ufficio composto da due stanze e un ambiente più ampio in cui, spiega, si tengono i corsi per i contadini e le riunioni; il tutto affacciato a strapiombo su un torrente che scorre qualche metro al di sotto del manto stradale e che percorre tutta la cittadina.

Le presentazioni non sono ancora concluse che a fare la sua comparsa sulla soglia della porta, vergognoso per i dentini caduti proprio sul davanti, fa la sua apparizione il piccolo Matheus: un visino furbo e un sorriso simpatico, complice le meravigliose fossette che solcano le sue guance, i capelli nerissimi e la carnagione mulatta di un bel bambino sano, robusto e – già si intuisce – instancabile.

È tenuto per mano da Nice, la madre, una donna bianca di mezza età con una stretta debolissima e lo sguardo sfuggente, e il padre Juarez, un omone di colore molto più anziano della moglie ma con uno sguardo buono fino all’infinito e un sorriso senza denti che tradiscono una sincera curiosità nei nostri confronti.

Attraverso Celia ci raccontano che Matheus si è fatto attendere per diciannove anni e che per loro rappresenta praticamente un miracolo visto che ormai non speravano più di vivere la gioia di un figlio. Lui ci mette solo qualche minuto a intuire di essere il protagonista di questo incontro, il tempo necessario ad abbandonare qualsiasi remora o vergogna per lanciarsi negli eterni giochi dei bambini, come “bim”, interpretazione minera del nostro “ce l’hai”.

Una volta che ci sediamo nella sala dei corsi per ascoltare la presentazione di Deliene, si lancia anche lui nell’esibizione compiaciuta della propria preparazione scolastica, mostrandosi in grado anche di scrivere i nostri nomi nonostante la scuola in Brasile cominci a sette anni e lui ne abbia solo sei.

Il Cta di cui si parla è il Centro Tecnologias Alternativas, un’organizzazione ben ramificata sul territorio e interconnessa con altre che hanno lo scopo di promuovere tecniche di agricoltura agroecologica, quella che permette di preservare l’integrità e l’identità del territorio, evitando l’uso di pesticidi o altri composti chimici, ma nello stesso tempo garantisce la possibilità di sussistenza della popolazione locale. Un obiettivo che viene raggiunto con corsi di formazione specifica, a partire dai bambini, dei quali si occupa ActionAid, in un’ottica di partnership.

Christina, dormire sotto l’eternit con 6 figli

Per toccare con mano le tante sfaccettature di questo progetto, dopo una splendida colazione a base di uno zuccheratissimo caffé nero, quejo (il tipico formaggio del Minas) e succo di frutta offertoci da Nice e Juarez e aver salutato il nostro piccolo e vivacissimo amico, percorriamo qualche chilometro per fare visita a Christina, una donna forte ma sformata da sei maternità e da una vita dura tutta trascorsa nel piccolo pezzo di terra di proprietà della sua famiglia.

Christina ha un’età indefinibile ma è certamente più giovane di quanto non mostri: i pochi denti rimasti spiccano su un volto da negra (termine che qui non ha alcuna connotazione negativa) e che impareremo ad associare all’identità contadina di questi luoghi.

Il marito lavora in una vicina fattoria, mentre due delle tante figlie fanno la loro comparsa da una porta fatta solo di un telo colorato, impegnate a mettersi lo smalto sulle unghie o, nonostante l’evidente giovane età, trascinandosi addosso qualche piccolo erede.

Nella minuscola casa dai muri azzurri, senza porte né finestre, Christina sta in piedi e per la troppa timidezza non ci guarda: parla solo in portoghese con Delieni che qui conosce tutti e da tutti è amata, e risponde di buon grado alle domande che le porgiamo con delicatezza attraverso la mediazione di Celia, raccontandoci di un grosso appezzamento che con gli anni e le eredità si è talmente ridotto da non soddisfare più le esigenze alimentari della famiglia.

Dopo un lungo colloquio, Christina ci precede fuori per mostrarci sotto un cocente sole di mezzogiorno le coltivazioni grazie a cui vivono non solo lei, il marito e i figli che ancora non sono sposati, ma anche gli anziani genitori, il fratello, una figlia sposata e il figlioletto Pedro. All’aperto, perché la sua casa occupa al massimo 30 metri quadri divisi in tre ambienti, una soluzione che i nostri standard occidentali non farebbero passare nemmeno sotto il nome di monolocale.

Del resto non sono solo le dimensioni a lasciare a bocca aperta: il pavimento è in terra battuta, quello che più che un tetto appare una copertura di fortuna è di eternit e non si trova nemmeno a due metri d’altezza; al posto delle finestre solo spazi vuoti. Ma la malizia è davvero solo negli occhi di chi guarda, perché pensieri di tal genere evidentemente non turbano la madre di Pedro, preoccupata solo che i bigodini con cui ci ha accolti asciughino in tempo per consentirle di fare bella figura alla festa che ormai si avvicina.

 La scuola: il rispetto per la natura come fonte di vita

Prima della festa facciamo tappa alla scuola Paulo Freire, specializzata nell’insegnamento delle tecniche di agricoltura agroecologica.

Nonostante sia domenica e siano cominciate le due settimane di permanenza a casa che si alternano ad altrettante da passare a scuola, l’edificio è affollato da ragazzi rimasti a scuola. La struttura, infatti, mette a disposizione dei dormitori che, per quanto squallidi e dominati da un arredo quanto mai improvvisato, consente agli studenti di mettersi alla prova sulla cucina, sulla coltivazione di un orto in loco e concede loro la possibilità di fare vita di comunità.

A illustrarci il funzionamento di questo piccolo gioiello sempre a rischio chiusura per la mancanza di fondi è Gilmar, un bel ragazzo di una trentina d’anni, appassionato coordinatore di strutture scolastiche come questa per conto dello stato di Minas Gerais.

Ascoltandolo e vedendo il suo entusiasmo all’opera, rafforzo l’impressione già avvertita che questo è un paese giovane, in cui anche posizioni di rilievo sono e possono essere occupate da persone che si distinguono per capacità e preparazione e non solo per burocratica anzianità lavorativa.

La festa dei lavoratori

La festa si tiene in una chiesa non ancora terminata. Sono moltissime le persone che vi partecipano, cantano e ballano, eppure non hanno volti da festa.

Mi guardo intorno e cerco senza trovarlo quel clima di vacanze, samba, divertimenti sfrenato che per molti è sinonimo di Brasile. Mi guardo intorno e non lo vedo, non ve n’è traccia. Quello che vedo sono invece i volti provati dalla fatica e dal lavoro quotidiano, volti temprati dalla terra e dal sole, dall’acqua che scarseggia e dal raccolto che serve per sé prima ancora che per il commercio.

Vedo rughe, escoriazioni, bruciature, bocche sdentate finalmente orgogliose della propria identità, decise a dare un futuro a se stesse prima ancora che ai propri figli. Uomini e donne che cercano nella forza dello stare insieme la certezza dei propri diritti, la consapevolezza di una comunità forte e coesa, in cui ognuno sa qual è il proprio posto e in cui ciascuno è chiamato a fare la sua parte.

Mi circondano fazzoletti per raccogliere i capelli, vestiti fiorati, le tradizionali maglie turchesi dei suonatori con i loro cappellini bianchi; le immancabili magliette indossate dai ragazzi che dichiarano l’inamovibile appartenenza a questo Brasile atipico, talmente grande da racchiudere in sé le infinite forme della gioia e del dolore, del divertimento e del lavoro, dell’ascesa e del degrado.

Perché siete venuti?

In quanto ospite (e oggetto di esclamazioni stupite da parte un po’ di tutti i presenti) e parte di un mondo, l’Italia, troppo lontano per conoscerne qualcosa, sono chiamata a illustrare le ragioni della nostra presenza.

È sentendosi dire che il loro esempio è utile non solo a loro ma a tutto il mondo che ha voglia di crescere e prosperare secondo un equilibrio sostenibile che i loro cuori si scaldano, e da ospiti finalmente ci riconoscono e ci accolgono come parte della loro comunità.

Sono poi la musica e le sue parole a riportarci all’incrocio, il luogo in cui si terrà la messa, apice di questa domenica contadina. A guardarci sfilare non c’è nessuno: sfiliamo per noi stessi, per affermare l’impegno e l’aspirazione a un futuro migliore per tutti, per la gioia di stare insieme e condividere un progetto.

Basta quello, basta l’affermazione della propria identità perché la festa si trasformi in un successo personale e comune. A scaldare ulteriormente gli animi ci pensa poi un energico pastore con le sue parole sincere: la pressoché infinita omelia ci verrà poi riassunta da Celia e consiste in un coraggioso mea culpa da parte dell’oratore che racconta la propria perdizione nell’alcool a causa di un incidente. Ai tempi era già sacerdote, ma poi è la benedizione di una seconda chiamata di Dio a ridonargli la Fede e a salvarlo.

Ma la cerimonia sarà indimenticabile anche per il rosario dei canti, per i balli accennati dalle donne, per la rispettosa devozione che rende pazienti all’infinito coloro che si accingono ai sacramenti, che partecipano con commenti ed esclamazioni alle riflessioni proposte, nonché la suggestiva litania di doni portati all’Offertorio da donne, anziani, ragazzi e bambini: una zolla di terra, una zappa, un cesto di frutta e verdura, i semi, le piante… strumenti e prodotti del lavoro dell’uomo che raccontano di un popolo che nella terra e sulla terra costruisce la propria esistenza.

 

Fonte immagine: archivio personale di Sara Re

 

 

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