Qualche giorno fa mi è capitato di rispondere ad una donna che mi ha chiesto una consulenza. Nella sua storia, facendo più volte riferimento al parto, ha utilizzato un termine: parto distocico. Nell’insieme del racconto questo termine mi ha colpito.

Ho pensato che questo può essere un esempio di cosa accade quando la medicalizzazione del parto è significativa, e fa assumere alla donna un vocabolario lontano dai vissuti corporei.

Ammetto che, pur essendo un termine da me conosciuto, ho impiegato qualche istante per contestualizzarlo nella narrazione. Questo attimo di “interruzione” nella mia comprensione mi ha fatto chiedere che significato avesse.

Una parola può voler dire tutto o niente. Il suo significato ha un senso dentro la trama della nostra esperienza.
In alcuni casi un termine tecnico può rappresentare un modo di allontanare alcuni vissuti, in questo caso il ricordo di un’esperienza dolorosa, in altre situazioni, al contrario, può aiutare a comprendere la complessità di un evento.

Ho sempre sostenuto che la donna è protagonista del parto con il suo corpo, con le sue sensazioni corporee. E che il linguaggio è specchio dell’esperienza: il modo in cui raccontiamo la nostra storia, le parole che scegliamo, non sono casuali ma rappresentano la condizione che abbiamo vissuto.

Per spiegare meglio ciò che intendo, vediamo un po’ la definizione. Il parto distocico è una modalità di nascita che per varie motivazioni non si può svolgere in modo naturale, e per essere portato a termine richiede un intervento medico o ostetrico. Si può trattare dell’utilizzo di strumenti per agevolare l’uscita del bambino o anche di un taglio cesareo.

Com’è ovvio, non intendo dire che la conoscenza dei termini che indicano alcune fasi del parto è sempre negativa: al contrario, ci sono situazioni in cui la consapevolezza di quel che sta avvenendo (o che avverrà) è un forte contenimento dell’ansia e delle paure.

Proprio per questo motivo,  in molti corsi di preparazione al parto si propone la familiarizzazione con termini e situazioni ospedaliere che si incontreranno con probabilità.
Ovviamente, ben venga.

Quel che mi colpisce sempre, invece, è il modo in cui nelle parole che le persone scelgono per raccontarsi esiste anche il proprio modo personale di vivere un’esperienza.
Raccontare è raccontarsi è qualcosa di meraviglioso ed incredibilmente potente: sblocca quel che è rimasto bloccato intorno ad un evento o ad un ricordo.

Il contenuto del racconto non è più importante del modo in cui raccontiamo le cose: le parole di questa donna mi hanno suggerito che la presenza medica era stata preponderante ed invasiva nella sua esperienza, più del sostegno a quel che lei stava vivendo e provando.

Il modo in cui ricordiamo il nostro parto, ed i significati che gli attribuiamo, riescono ad essere elementi importanti, unici e personali, che continuano ad avere i loro effetti anche a distanza di molti anni.

dott.ssa Marcella Agnone – Psicologa Psicoterapeuta

foto: mammedomani.it