Quanto è possibile sviluppare le nostre capacità empatiche a vantaggio di una migliore qualità di vita? E come possiamo insegnare tutto questo ai nostri figli? Il primo passo è cominciare da noi stessi. Vediamo come.

Comunicare, etimologicamente, significa “rendere comune” ovvero rendere partecipi gli altri di qualcosa. Comunicare presuppone uno scambio, sia sul piano verbale che non verbale, quindi presuppone una relazione.

Poter comunicare è un bisogno primordiale innato: ogni essere umano viene al mondo con un enorme potenziale comunicativo, ed esprime competenze in questo ambito che appaiono davvero straordinarie.

Comunicare, tuttavia, non significa soltanto parlare: è un processo che include molti aspetti complessi come il linguaggio corporeo, l’intenzionalità, e non ultima l’empatia.

L’empatia è la capacità di assumere il punto di vista altrui, è il sentire “come se fossimo l’altro”. Il dato straordinario che è testimoniato da numerose ricerche scientifiche (Hoffman, 1979) è che l’empatia ha uno sviluppo precocissimo nei bambini: si sviluppa a partire dal primo anno di età, e si perfeziona per tappe, nell’arco dell’infanzia.

Ma cosa succede poi, a noi uomini e donne di oggi, quando cresciamo? Quanto è possibile sviluppare le nostre capacità empatiche a vantaggio di una migliore qualità di vita?

Il rapporto con noi stessi e quello con gli altri sono strettamente legati: migliorare l’uno equivale a migliorare l’altro. Ciò significa anche che l’empatia e la qualità del rapporto con gli altri aumenta il benessere soggettivo.

Genitori confusi, disorientati, o soltanto desiderosi di capire: qual’è il primo passo per innestare questo circolo virtuoso, e come tutto questo si correla alla crescita dei nostri figli?

Ritengo che il punto di partenza sia fermarsi ed avere la capacità di ascoltare se stessi: nell’era in cui tutto è troppo veloce e mutevole, questa è una virtù sempre meno insegnata ai nostri figli, e nella quale noi per primi non siamo abili.

Ogni essere umano ha bisogno di un tempo per ascoltare, per comprendere, e per assimilare. La genitorialità non è esclusa da questo modus operandi. Al contrario, siamo sempre più coinvolti in ritmi che non ci lasciano il tempo di ascoltare le nostre sensazioni, i nostri vissuti, e di conseguenza di empatizzare con quelli altrui.

Se il primo passo è la consapevolezza, la prima lezione per essere un genitore consapevole è quella di trovare il tempo di fermarsi. Di ascoltare noi e l’altro. Di metterci nei panni di nostro figlio.

Ne parleremo ancora nel prossimo articolo.

Marcella Agnone – Psicologa Psicoterapeuta

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