Quando ero una mamma giovane (e competitiva, ma non ditelo a nessuno), credevo che la cosa fosse fisiologica: hai tra le mano in bambino nuovo di zecca, ti piace pensare che sia il migliore.

Quello imbocca subito il ritmo circadiano per il giusto senso di marcia, che si attacca al seno a intervalli regolari, che a cinque mesi si regge seduto, a otto gattona e a dodici cammina (e attente ché vi sento, o voi che state pensando: il mio a undici!).

La prima gara è sul peso.
Quando la mia primogenita era neonata conobbi una mamma che metteva dei sassolini tra il pannolino e body della figlia perché gli altri genitori credessero che cresceva più velocemente dei loro. Non ho mai più visto una simile pratica – quindi posso tranquillamente archiviare l’episodio tra le follie da puerperio – ma ugualmente mi sembra paradigmatica di quello che un genitore arriva a fare per vincere la battaglia.

Quale battaglia?
Non saprei, ce ne sono tante. Da che sono mamma ho visto genitori competere in ogni campo: per il trofeo del bambino più mangione, quello per il bambino più loquace, del bambino, più vivace, più estroverso (vivacità ed estroversione sono valori) quello per il bambino più obbediente e quello per il bambino con il maggior numero di denti – e potrei continuare, ché non esistono limiti per un genitore che voglia dimostrare al mondo quanto la sua prole sia fantastica. Ho detto fantastica? Volevo dire: la migliore. E la più bella, ça va sans dire.

Crescendo le cose non migliorano, anzi.
L’inizio della scuola consente al genitore competitivo di legittimare la propria sete di gloria. Riconoscere il genitore in gara è facile: è quello che conosce i voti di tutta la classe (e ha molto da ridire su quelli del figlio).
Qualora la carriera scolastica del pargolo non sia sufficiente a soddisfare lo spirito agonistico del genitore, le attività sportive extracurricolari intervengono a colmare la lacuna e allora ecco il papà urlare dagli spalti del torneo di calcio di quartiere; la mamma sperare che cadano le clavette della ginnasta avversaria; ecco i genitori rimanere malissimo se la figlia non è in prima fila al saggio di danza.

Insomma, se l’orgoglio per i propri figli è un sentimento sano e fisiologico, sconfinare nella patologia è un attimo.

Ma non finisce proprio mai?

“No. L’upgrade di questo abominio sono le madri con figli al liceo” risponde Francesca, la più saggia delle mie amiche. “Ce ne sono che sanno a memoria i voti di tutte le verifiche di tutte le materie e te li raccontano con dovizia di dettagli e statistiche sull’andamento della terza fila di banchi a destra. “Ma il tuo ha la Rossi?? Ma che fortuna, il mio ha la Bianchi e studia come un matto!” “No guarda, la Rossi è molto peggio. Il mio è già arrivato alla perifrastica attiva, non so se rendo”. Oh, roba che devi separarle”.

Che fare quindi per rientrare nella categoria? Il mio suggerimento è: coltivare un sano menefreghismo e coccolare la fisiologica stanchezza verso gli obblighi della genitorialità (anche bere tanti spritz con gli amici aiuta).