La transizione alla genitorialità negli ultimi anni ha assunto delle caratteristiche specifiche della nostra era.
Come abbiamo avuto modo di vedere, il sostegno ai neo-genitori è oggi sempre meno familiare ed amicale, e sempre più affidato ad un welfare purtroppo inesistente nel nostro Paese.

Fatta eccezione per alcune felici realtà positive, molte coppie davanti a questo evento sono totalmente impreparate, e devono “arrangiarsi”, “navigare a vista”, fare esperienza sulla propria pelle, con meccanismi di prove ed errori.

L’esperienza più diffusa è che molti genitori sono abbandonati a se stessi. Il pensiero dominante è che “se tutti ce la fanno ce la puoi fare anche tu”, che “genitori tutti lo sono stati”, e così via coi luoghi comuni.

Il risultato è una profonda difficoltà, che si esprime nei modi più variegati: dalla depressione post-partum, alla crisi della coppia, alle separazioni facili.

Nei casi che personalmente reputo i peggiori, le conseguenze delle difficoltà dei genitori le pagano i figli in termini di modelli di crescita problematici: che puntano eccessivamente sull’autonomia del figlio, o al contrario “simbiotici” (in cui si considera il figlio un’estensione di se stessi, ritardandone lo svincolo), o “narcisistici” (in cui i figli sono investiti dalle eccessive aspettative genitoriali).

Ciò che davvero è assente, a mio parere, è una cultura del sostegno alla genitorialità, a cui si ricorre (e non sempre) solo nel momento in cui insorge “un problema”, quasi sempre evidente (o per meglio dire designato) nel figlio, laddove è più facile vederlo.

Manca una cultura della prevenzione, dell’educazione, dell’informazione, disconosciuta dal Sistema Sanitario Nazionale, che punta alla cura sperando così di ridurre i costi di intervento.
Manca la fede nel famoso detto “meglio prevenire che curare”.

E ciascuno di noi, vittima di un contesto in cui la consapevolezza personale, corporea, relazionale, è sempre più anestetizzata, ritiene sempre che affidarsi alla prevenzione e al sostegno (in questo caso psicologico) possa essere un’ammissione di fragilità da un lato, “malattia” e imperfezione dall’altro.

L’atteggiamento più comune davanti alla proposta di una consulenza psicologica è il timore di essere considerati “persone da curare”, “malati”.

E si ignora, con questo, che il prezzo più alto di questo atteggiamento lo pagano le relazioni, in primis, e i nostri figli, in seconda istanza.

dott.ssa Marcella Agnone – Psicologa Psicoterapeuta

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