Quando mia figlia iniziò a utilizzare Messanger, io le sedevo accanto leggendo i messaggi in presa diretta e sentendomi Mamma Numero Uno, di larghe vedute ma stretto controllo.

Questo fino al giorno in cui Facebook mi suggerì di stringere amicizia con una ragazza che poteva avere l’età di mia figlia, con la faccia da bimbaminkia di mia figlia e la sua stessa collezione di peluches.

Mia figlia, appunto.

Mia figlia su Facebook

La ragazza non aveva ancora l’età per iscriversi su Facebook, nonostante questo non la sgridai, anzi: le chiesi l’amicizia.
Dopotutto, Facebook si rivelava un’invenzione seconda solo al fuoco, alla ruota e al silkepil: dava possibilità di sapere cosa combinava l’adolescente di casa senza che mi prendessi il disturbo di andare a leggere il suo diario segreto, né annegare trai sensi di colpa per averlo fatto.

Mia figlia non concesse l’amicizia, anzi mi bloccò.

Allora entrai tra i suoi contatti con un falso profilo. Ma se ne accorse quasi subito, e bloccò anche quello.

Non mi arresi e diventai amica dei suoi amici. In questo modo avrei potuto triangolare le informazioni e avere il polso di quanto accadeva nel mondo segreto degli adolescenti.

Funzionò. Anzi, l’idea si rivelò un tale successo che suggerii agli altri genitori di fare altrettanto.

Io e gli altri ostracizzati dalle bacheche dei propri figli ci compiacemmo nel vedere con quanta assennatezza i ragazzi gestissero la loro vita virtuale: non solo comunicavano tra loro in italiano forbito e senza abbreviazioni, ma addirittura esibivano un uso corretto del congiuntivo.
A risultare infondata era soprattutto la nostra preoccupazione che la loro vita si svolgesse esclusivamente in rete. In realtà, la loro presenza nei social era di gran lunga inferiore alla nostra. Noi abusavamo del web, loro invece postavano di rado e solo panorami o foto di gattini.

Solo in un secondo tempo ci accorgemmo che quei profili erano falsi, creati ad uso e consumo dei genitori in ansia, e che le vere conversazioni si svolgevano altrove.

Ma, prima che potessimo intervenire drasticamente, la realtà ci era già cambiata da sotto gli occhi.

Viber, Wechat e What’sApp

In pochi giorni – macché giorni: se non apparisse come un’iperbole, sarebbe più corretto scrivere “in poche ore”  Viber, Wechat e What’sApp avevano cambiato inesorabilmente il modo di comunicare dei ragazzi. I gruppi che si creavano, scioglievano, cambiavano composizione, stabilivano una costellazione di relazioni e diplomazie a cui i genitori erano completamente estranei. E nemmeno sarebbe stato sufficiente privare il figlio dello smartphone per saperlo al sicuro, ché c’era sempre un amico compiacente disponibile a prestare  il proprio per permettergli di chattare.

“Non mio figlio” dichiara Maria Grazia, mamma di undicenne assennato. “Io ho la password di accesso ai suoi account e tutto quello che scrive o che riceve transita nel mio indirizzo di posta” racconta.

Peccato che proprio la sera prima io abbia letto le battute che il suo ragazzo scambiava con la mia secondogenita su Ask. Niente di volgare, anzi: un divertente botta e risposta sulla verifica fallimentare di matematica. Solo, dubito che la mia amica sappia che il figlio scrive su Ask, e chi sono io per toglierle l’illusione di avere tutto sotto controllo?

“Sei davvero una mamma attenta” le ho detto col più grande dei sorrisi.