E’ nato. Il giorno prima ho dormito quasi tutto il pomeriggio, come se, inconsciamente, volessi  recuperare le forze per il travaglio imminente. Ho trascorso la notte insonne, in balia di contrazioni regolari, ma al controllo dell’indomani in ospedale mi dicono che ancora non si tratta di travaglio. Mi fanno tornare il pomeriggio per il ricovero, decisione dettata dalla mia lieve ipertensione unita all’avvicinarsi del termine ultimo…

Inizia l’effetto domino: mi rompono le membrane, mi somministrano una sostanza per aumentare le contrazioni. Ho un travaglio lungo doloroso e soprattutto artificiale. Dopo sette o otto ore il farmaco cessa il suo effetto (o è il mio fisico che rifiuta), raggiunta la dilatazione completa mi mancano le spinte per far nascere il bimbo. Costantemente monitorata, attaccata alla flebo.

Dopo altre due ore di tentativi vani si decide per il cesareo. Mi trovo catapultata in sala operatoria. Estraggono il bimbo, sento un vagito, ma lo vedrò dopo, il lungo travaglio ha stressato anche lui e deve essere visitato subito.

E’ strano… ero pronta a sentire il dolore della nascita, ma non questo dolore…volevo sentirlo emergere dalle mie viscere, sognavo il momento in cui l’avrei avuto sul mio petto, appena nato, ero sicura che mi sarei commossa, sarei scoppiata in un pianto a dirotto, vicino al mio uomo, anzi ai miei due uomini…
Niente di tutto questo.

Ora faccio i conti coi dolori post operatori, con la maledetta sostanza che mi viene ancora infusa per far contrarre l’utero. Non ho la forza di girarmi nel letto, di prendere in braccio la creatura.

Si è infranto il mio desiderio di mettere al mondo il piccino con il minor numero di interventi medici possibile. Fin da quando ero bambina ho sempre pensato al parto come ad un atto così naturale da potersi fare anche dietro ad un cespuglio… da sola… come tutte le creature del mondo…

Mi manca qualcosa, mi devo riconciliare col mondo.