Quando un bambino commette un errore, è giusto punirlo? Come riconoscere il suo rimorso e valorizzarlo perché diventi un occasione di apprendimento?

I temi della punizione e del senso di responsabilità riguardano sia i quotidiani percorsi educativi che i temi più importanti , come ad esempio il bullismo.

Gli esperti ci dicono che il bullismo è mancanza di empatia, una componente necessaria della consapevolezza.
Ma si può promuovere lo sviluppo morale facendo leva sulla punizione del misfatto?

Per ridurre il fenomeno del bullismo abbiamo bisogno di sviluppare nei bambini l’empatia, in modo che si comportino più moralmente. Parlo di bambini perché credo che l’empatia sia qualcosa da valorizzare sin dalla prima infanzia, puntando sulla capacità di riconoscere i vissuti dell’altro.

A volte crediamo che obbligare qualcuno a rendere conto del proprio comportamento favorirà questo processo, dimenticando di quanto sia importante dare voce a quel che si prova quando si commette un errore.

Ci sono due livelli fondamentali di moralità. Uno si basa sulla paura della punizione. L’altro si basa sulla sensazione di rimorso per aver ferito gli altri.

Questa è la ragione per cui la prevenzione del bullismo o la comprensione di aver sbagliato non possono basarsi su un sistema punitivo che ammetta indagini “poliziesche”, in cui si vada alla ricerca di “dichiarazioni” da parte dei “colpevoli”.

La paura della punizione non è un vero e proprio senso morale. Quando evito di commettere azioni specifiche perché non vogliamo essere punito, sto agendo nell’interesse personale. E’ più facile che le persone si comportino male una seconda volta, se la loro coscienza si basa sulla prevenzione della punizione e si trovano in una situazione in cui sanno che non stanno andando incontro a sanzioni.

Quando abbiamo una consapevolezza reale, d’altra parte, evitiamo determinate azioni non perché siamo preoccupati non per noi stessi, ma per gli altri. Ecco perché la maggior parte di noi si sente triste o prova rimorso quando si rende conto di aver fatto del male a qualcuno.

Sembra che tutto questo non sia solo un merito o un demerito dei nostri genitori (ecco perché ugualmente non ha senso colpevolizzare le famiglie): la nostra sopravvivenza, sia come individui che come gruppo, dipende da quanto riusciamo a sentirci male quando ci facciamo del male l’un l’altro.

Come insegnava Vittorio Gallese all’inizio del 2011, in una conferenza alla quale ho assistito, il meccanismo attraverso il quale ci sentiamo male quando facciamo del male alla gente avviene attraverso il funzionamento di ciò che i neuroscienziati chiamano neuroni specchio .

Il nostro cervello è in grado di sperimentare ciò che costituisce l’esperienza degli altri. Quando qualcuno ci sorride, ci viene spontaneo sorridere. Quando qualcuno urla di dolore, ci addoloriamo. Sappiamo che la risata è contagiosa, e che su questo si fondano molte trasmissioni comiche. Persino quando guardiamo una ballerina, le stesse aree del cervello che sono attive nella danzatrice sono contemporaneamente attive nel nostro cervello anche se non stiamo ballando.

Vi farò un esempio per comprendere meglio il meccanismo applicato ai metodi educativi. Per sdrammatizzare, userò un episodio di piccolo litigio tra fratelli, di quelli che capita frequentemente.

Poniamo il caso che un bambino molto piccolo, che fa esperienza del mondo attraverso nessi causa-effetto, si ritrovi a spingere suo fratello giù dalla bicicletta “per vedere che succede”. Questo cade e si fa un graffio, piangendo a gran voce.

Il bambino vede il fratello piangere, vede il sangue dal graffio, si immedesima nel pianto e prova un gran dispiacere. Vorrebbe abbracciare suo fratello, pensa che non lo farà più, ed intanto accorrono i genitori a soccorrere il piccolo ferito. Molto arrabbiati lo rimproverano per la responsabilità dell’accaduto, si concentrano esclusivamente sulla ferita e non si curano del fratello mortificato. Anzi, lo mettono proprio in punizione, nonostante egli abbia detto che non voleva ferirlo.

Il ragazzo punito proverà rabbia per il trattamento ricevuto e per tutte le attenzioni volte al fratello, e non troverà sostegno al suo dispiacere. Sebbene i genitori sperano che la punizione gli faccia sentire rimorso, questa gli farà provare un forte senso di vendetta, il dispiacere di non essere creduto e tutto gli sembrerà molto crudele.

Ci sono interventi educativi fatti a fin di bene che finiscono col peggiorare alcune situazioni. Puntare sulle sensazioni, sui vissuti, sui sentimenti è il solo modo perché un intervento possa essere risolutivo. Il rimorso (e non la responsabilità) è l’unica cosa su cui poter fare leva.

Se un bullo fa del male agli altri, è importante che prenda innanzitutto coscienza del dolore dell’altro, che sia esposto al senso di rimorso, che abbia la possibilità di esprimere il suo dispiacere piuttosto che la sua rabbia. E se questo significa poi essere esposti ad una normativa che regola il comportamento, questo può essere solo una conseguenza.

Solo quando i bambini sono molto molto piccoli, o gli adulti sono in situazioni in cui non riescono ad avere consapevolezza (situazioni gravemente patologiche, ad esempio) il sistema punitivo può essere l’unico argine ad un comportamento pericoloso.

La punizione, d’altro canto, deve sempre comprendere una parte di comprensione rispetto ai vissuti del ragazzo punito. Mai infliggere una punizione con rabbia. La punizione dev’essere sempre riparativa, ovvero essere commisurata alla colpa commessa, e se possibile prevedere la possibilità di rimediare ai propri errori.

Marcella Agnone – Psicologa Psicoterapeuta

foto: colourbox.com