Nel precedente articolo abbiamo parlato del caso in cui le paure del bambino o gli incubi notturni sono così frequenti da preoccupare mamma e papà, e fanno pensare ad una consulenza psicologica. Parliamo di come si fa, quanto dura.Una consulenza può racchiudersi in un unico colloquio che serve a capire quali sono le alternative percorribili, a conoscere il professionista, a valutare le scelte da fare. Dopo questo colloquio potete decidere di tornare a casa e pensarci, per fermarvi qui oppure andare avanti.

Per la fase diagnostica, ovvero quella che serve ad avere una comprensione iniziale delle cose che accadono (attenzione, non le stiamo chiamando “malattie”!) , possono servire alcuni colloqui, variabili da persona a persona e a seconda del caso.

E’ impossibile, infatti, inquadrare un fenomeno in un solo colloquio: ci sono aspetti delle situazioni che si rivelano solo dopo molto tempo, ed una fase “di comprensione” è necessaria a conoscersi meglio e ad approfondire il tema.

Un professionista serio non vi rilascerà “un’etichetta” alla quale dovrete corrispondere, e non risolverà la cosa attraverso una “formula magica” del tipo “se vedo questo allora mi comporto così”: ogni persona è unica, ed ogni trattamento, per quanto si avvalga di alcuni strumenti da utilizzare, va tarato sull’individuo, sulla famiglia, insomma sulla relazione.

Questa fase diagnostica in genere mira ad evidenziare limiti e risorse della persona, della famiglia, e si può paragonare ad un percorso di consapevolezza: alla fine avrete le idee più chiare su cosa succede (non è detto che le abbiate sul perché succede) e su quali sono i vostri atteggiamenti positivi e negativi.

Detto questo, potrete scegliere (se è il caso) di proseguire con un trattamento terapeutico, un periodo più lungo e indefinibile durante il quale si cercherà di risolvere il problema.

Tornando a paure ed incubi.

Ho già detto che il comportamento del bambino è una richiesta di sostegno ai suoi genitori: che sia una paura evolutiva o legata ad una situazione critica, è comunque un comportamento sano perché comunica un bisogno.

Sentirete dire spesso che i bambini non si portano in terapia: il mondo accademico si divide esattamente a metà rispetto a questa prassi.

Sono dell’idea che per alcuni sia più semplice pensare di risolvere un comportamento disfunzionale mandando un bambino ad un ciclo di sedute, durante le quali si attende in sala d’aspetto: equivale a chiedere al terapeuta di lavorare al posto nostro, e anche se può dare dei benefici, a mio parere non risolve il problema perché non modificherà i comportamenti là dove nascono (in famiglia).

Molto spesso, al contrario, si tiene il bambino fuori dalla terapia, lavorando invece proprio con i genitori per permettere loro di trovare i mezzi per risolvere la situazione problematica.
Ottima strategia, che de-responsabilizza il bambino, lo toglie dal “centro del mirino”, lo rilassa, e diventa un ottimo inizio per cominciare a far sparire “il sintomo”.

Esiste un terzo caso, da considerare fortemente.
Prediamo proprio l’esempio in cui un bambino è fortemente atterrito, non riesce a dormire la notte, e il comportamento si prolunga nel tempo diventando un ostacolo alla quotidiana serenità.

E’ ovvio, considerando anche l’età del bambino, che il lavoro migliore consiste nell’incontrare i genitori e sostenerli affinché loro possano rappresentare delle figure di contenimento della paura e possano ricostituire l’equilibrio emotivo familiare.

Può essere altrettanto utile, nel frattempo (dato che la ricerca di soluzioni ha un periodo piuttosto lungo che non può essere pre-definito), “sostenere il bambino nel suo bisogno di essere ascoltato”.

Come?
Molto spesso questo avviene con delle terapie di supporto, che non sono delle “cure”, ma dei laboratori di espressione di cui si occupa un terapeuta esterno (non quello che segue i genitori, per capirci).

In questi laboratori si fa un lavoro prevalentemente centrato sulle emozioni del bambino attraverso il gioco. Esprimere le proprie paure, infatti, permette al bambino di “buttarle fuori” e di elaborarle.

E’ a discrezione del terapeuta stabilire se questa “terapia di supporto” può essere utile per far percepire al bambino che si sta considerando il suo problema e che si sta lavorando per risolverlo. Insomma, per non lasciarlo “solo”.

E’ chiaro che su questa scelta intervengono molti fattori, tra cui l’età del bambino e la situazione.

Conoscere le alternative che avete a disposizione vi permetterà di muovervi con più sicurezza nel percorso delle scelte da fare.

dott.ssa Marcella Agnone – Psicologa Psicoterapeuta

foto: naturalia.net